Fino agli ultimi giorni della sua vita, Pietro Barcellona ha combattuto la sua battaglia per squarciare il velo della menzogna e della insignificanza. Era un lottatore, indomabile. Un uomo pieno di passioni. Un cercatore di giustizia e di verità. Diceva di avvertire dentro di sé un “demone” che lo spingeva a “una lotta incessante contro l’insignificanza degli esseri umani e del mondo circostante”. Per questo desiderio di «cose vere» aveva lasciato ancora giovane l’ambiente cattolico in cui era cresciuto (“Avvertivo la finzione della ritualità”, confidò una volta) e si era tuffato nell’utopia comunista dell’«assoluto terrestre».
Non si fermava davanti agli ostacoli. Ne sanno qualcosa i nostri lettori che lo hanno seguito in questi anni. Non c’era fatto, bello o doloroso, che non lo colpisse. Non c’era vicenda politica o sociale che non cercasse di sviscerare. Con analisi sempre lucide e appassionate.
Era passato dagli studi di diritto alla politica attiva nella sua città, Catania. A metà degli anni 70 cominciò a ricoprire incarichi dirigenziali nel Partito comunista. Fu quello il periodo in cui l’intellettuale Barcellona si mischiò con gli operai, frequentando le loro mense e i quartieri periferici. Ogni volta che ripensava a quegli anni si commuoveva: erano stati il periodo della sua prima conversione. «Gli operai della Cesame – raccontò in un’intervista – si erano affezionati a me moltissimo, perché andavo a fare assemblea con loro in fabbrica nella pausa pranzo. Quegli operai mi avevano adottato: venivano a casa mia, giocavano con i miei figli. Da loro mi sentivo voluto bene. Con loro il comunismo mi sembrava una risposta alla mia domanda esistenziale: era uno stare insieme agli altri per costruire un futuro di salvezza. Salvezza umana, ma sempre salvezza».
Barcellona passò poi all’alta politica: parlamentare del Pci dal 1976 al 79, membro laico del Csm negli anni del sequestro Moro, presidente del Centro per la riforma dello Stato, fu successore di Pietro Ingrao. Furono, quelli, anni difficili per la storia della Repubblica, che l’intellettuale catanese visse da protagonista.
Poi arrivò la caduta del Muro e con essa la delusione per un “assoluto terrestre” che si frantumava. «Crollato il Muro – usava dire – sono crollato pure io». Era un mondo che aveva chiesto e preteso tutto dai suoi militanti e che ora si sbriciolava, mostrandosi menzognero. «Il motivo – racconterà dopo – per cui io mi sono pure ammalato è stata la disgregazione umana dei gruppi con cui ero abituato a vivere».
Quel rapporto si ruppe intellettualmente e anche affettivamente. «Perché non riesco a concepire – spiegò – il rapporto con una tradizione intellettuale senza vederla in qualche modo praticata e realizzata nelle persone che la professano».
Ma il cammino di Barcellona non si è arrestato. Dopo l’esperienza del comunismo egli s’è dovuto ben presto confrontare col “mostro del nichilismo”. A lui, docente universitario e aperto alle istanze dei giovani, quella corrente culturale s’è mostrata immediatamente nei suoi effetti devastanti di indifferenza e apatia soprattutto sui ragazzi. «Ho avuto il terrore – ha raccontato – che si diffondesse nel senso comune l’idea che tutto vale nulla, che si diffondesse l’impossibilità di dare valore alle cose». Contro il nichilismo, Barcellona ha combattuto grandi battaglie intellettuali ed educative (pubblicando libri e articoli, promuovendo seminari, convegni, associazioni di studio).
Il Professore era un sostenitore accanito della categoria dell’esperienza. Ai propri allievi amava sempre ripetere che «l’esperienza non è un’astrazione, è l’accadere di una presenza».
Incontrando sempre nuovi amici, nella schiettezza del rapporto con loro approfondiva le loro ragioni. È stato così che, in forza di alcuni incontri con personalità di fede (famosa una cena in trattoria quando alla fine di una lunga conversazione con un prete esclamò: «Sono contento, mi è sembrato di conversare con un vecchio compagno di partito», e il sacerdote di rimando: «E a me è sembrato di conversare con un amico di seminario») ha ripreso a considerare l’ipotesi cristiana, ma non come un’ipotesi intellettuale. «Non basta il pensiero di Dio, tipico di tanta filosofia anche contemporanea – diceva – per avere un rapporto con Dio». E aggiungeva «Posso parlare di Dio perché ho un rapporto con Gesù». E di questo Gesù aveva voluto cercare le tracce. Sia quelle storiche, sobbarcandosi un viaggio in Terra Santa, sia quelle attuali. «Cristo non è una teoria – ha scritto – è una incarnazione. E se è una incarnazione non può non essere una presenza». Agli amici credenti (sacerdoti o laici che fossero) non ha mai risparmiato il suo sguardo indagatore, per carpire il segreto della vita.
Catania gli deve tantissimo. Soprattutto per il suo impegno appassionato nella costruzione di un futuro che desse speranza ai giovani. Negli ultimi anni della propria vita, quando ormai era in pensione, aveva deciso di costruire una iniziativa di valore internazionale (“I Dialoghi d’Aragona”) che richiamasse nell’Isola studenti e ricercatori da tutta Europa. Con generosità aveva messo a disposizione dei giovani che per 15 giorni l’anno si radunavano a Catania la propria competenza e il giro (larghissimo e autorevole) delle sue amicizie accademiche. Così per alcuni anni siamo stati abituati ad ascoltare nella città etnea i migliori maestri del pensiero europeo che venivano a dare ragioni di speranza per vivere e ricercare.
Nel febbraio del 2012, l’amministrazione comunale decise di offrire a Pietro Barcellona la “candelora d’oro”, il premio che si dà ogni anno per la festa di Sant’Agata ai cittadini illustri. Il Professore rimase stupito che avessero pensato proprio a lui, col passato che aveva. Ma poi si decise ad accettare, ponendo una condizione: che il Comune si impegnasse a finanziare alcune borse di studio per giovani laureati locali. Era ormai «fuori ruolo» in Università, ma il suo cruccio rimase sempre poter costruire condizioni favorevoli per le nuove generazioni, senza abbandonare mai, neanche negli ultimi difficili giorni della malattia, la lotta col proprio “demone” che lo spingeva a trovare il perché ultimo di tutto.