“Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia…”. Il sussulto di desiderio che attraversa il Cantico dei cantici è il registro in cui si è identificato l’amore per il tutto di Dio che la fede cristiana ha coltivato nei secoli. La ferita del bisogno inappagato, il fuoco di un’attesa che brucia, sono diventati la forma più esplicita e sincera del senso religioso vissuto come brama, come tensione creata da un vuoto da riempire, che non lascia tregua e spinge senza sosta a cercare.
Qui siamo oltre l’allegoria rarefatta dei simboli astratti: siamo trascinati nel vortice di un’esperienza che mobilita il cuore, gli affetti, l’intelligenza e le energie dell’uomo come essere vivo, nella concretezza del suo intero esistere e muoversi nel mondo. Non era per modo di dire che la pietà più accesa e travolgente dei mistici di ogni tempo faceva proprio lo struggimento delle giovani innamorate da cui il Cantico dell’Antico Testamento prende il suo solenne incipit: ” [Che] mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliore del vino è il tuo amore. Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, aroma che si spande è il tuo nome…”.
La forza del simbolismo era racchiusa nella totale analogia degli atteggiamenti. La dialettica dell’amore carnale si è prestata, in quanto tale, a fondersi con il gioco dell’anima umana attirata dal vortice inarrestabile del richiamo che si sprigiona senza sosta dal Signore riconosciuto fonte misteriosa di ogni bene, culmine della felicità che surclassa ogni rappresentazione istintiva di possesso dentro un orizzonte ristretto. L’amore umano si radicalizza fino a rovesciarsi nell’aspirazione al compimento totale: come il cacciatore si getta sulle orme della sua preda, il niente della creatura insegue il massimo di intensità e di pienezza che inesorabilmente la scavalca, che non si può catturare o circoscrivere una volta per sempre e chiede, al contrario, di protendersi ancora in avanti, senza fermarsi alla barriera del già conquistato, assimilato, una volta per tutte piegato alla logica del proprio calcolo e della propria misura.
Lo slancio dell’amore che non si lascia mai riempire e invoca di ricongiungersi con l’origine da cui lui stesso discende sospinge fin sull’orlo vertiginoso del dramma dei rapporti che legano l’uomo al Dio che lo salva, attraverso l’amore totalmente liberto e gratuito di Cristo fatto carne in mezzo al flusso della storia. Ci troviamo collocati al centro della scena, nel cuore intorno a cui ruota tutto l’ingranaggio dell’universo creato. È il nodo costitutivo di una teologia che pensa e parla di Dio immaginandolo come la risposta alle esigenze primordiali, connaturate con l’essenza più intima della persona umana: che non si è fatta da sé, e solo in ciò che l’ha generata e la fa vivere può trovare il suo punto di appoggio risolutivo, la sua soddisfazione più genuina.
Ma questa teologia contemplata a partire dal bisogno di totale corrispondenza che muove la creatura umana non è rimasta un sapere per pochi eletti, chiuso nel recinto di un’impervia specializzazione intellettuale. Il principio teologico ha innervato la pedagogia rivolta alle masse dei fedeli. Si è disseminato tramite l’insegnamento delle scuole, la predicazione, le pagine dei libri di istruzione che hanno inondato il pubblico dei lettori soprattutto a partire dall’invenzione della stampa. La pastorale religiosa del clero non si è irrigidita nel linguaggio unilaterale della paura e dell’imposizione coercitiva, fondate sulla minaccia delle pene che terrorizzavano, costringendo a essere obbedienti alla legge solo per sfuggire ai castighi eterni del Dio-giudice che vigila implacabile su tutto e scandaglia anche le pieghe più nascoste della coscienza dei singoli.
Si è molto sottolineato, in tanti filoni della ricerca storica del passato, il primato del terrorismo psicologico come arma usata dalla Chiesa per soggiogare i popoli e frenare la ricerca di autonomia dell’uomo moderno. Ma questo genere di letture confondono alcune derive estremistiche con la linea maestra secondo cui l’annuncio cristiano si è tramandato lungo il filo delle generazioni, dal primo al secondo millennio. Come nelle epoche precedenti, ancora in piena età moderna la pastorale della paura ha convissuto e molto probabilmente è stata superata dalla logica positiva dell’attrazione, centrata sulla dinamica della passione umana e sul contagio del desiderio che conduce all’abbraccio di una misericordia che consola e redime, dentro il circuito di un affetto dilatato oltre ogni angustia e ogni tranello equivoco, spalancato all’infinito senza limiti dell’amore divino. Più che la bocca divorante dell’inferno pronto a inghiottire i poveri peccatori incauti, più che la spada di giustizia del “tribunale intollerabile” del Dio censore dei vizi più tremendi del comportamento umano, qui tornavano in primo piano la poesia infiammata dell’eros religioso del Cantico, la giostra degli affetti messa in moto dalla preghiera dei Salmi, l’ostinazione dei Vangeli sulla vittoria irresistibile della carità, l’ansia di totalità e di perfezione delle lettere di san Paolo.
Una conferma assolutamente convincente della necessità di riequilibrare l’immagine del cristianesimo proposto alla fede dei cristiani dei secoli scorsi viene da quello che oggi sappiamo dell’azione educativa svolta dalle forze più vivaci della Chiesa cattolica dei tempi moderni, a cominciare dalla congregazione della Compagnia di Gesù. Prendiamo, come esempio, una delle più fortunate raccolte di emblemi immesse sul mercato librario dell’Europa di Sei-Settecento dagli autori gesuiti: i Pia desideria del fiammingo Herman Hugo (prima edizione, 1624).
Gli “emblemi” erano raffigurazioni simboliche che illustravano un messaggio da decifrare interpretando immagini suggestive contornate da scritte e sentenze di commento. Erano un modo per insegnare facendo leva sull’intelligenza curiosa, capace di associare la parola sapiente con l’evidenza visiva dei segni materiali.
Nella raffinata collezione di rebus edificanti messa insieme da Hugo, continuamente ristampata fino al secolo successivo, le parafrasi poetiche dei frammenti prelevati dalla Sacra Scrittura e dai testi dei Padri della Chiesa componevano un disegno organico della vita devota, diviso in tre libri. Non era un caso che l’ultima parte recasse il titolo, veramente programmatico, di “Sospiri dell’anima amante”. Ancora di più, l’emblema introduttivo, nella raccolta di Hugo, prende a tema il salmo 37: “Signore, è davanti a te ogni mio desiderio, e il mio gemito non ti è nascosto”. L’immagine di accompagnamento mostra l’anima dell’uomo inginocchiata ai piedi delle nuvole celesti, dimora di Dio. Ne escono un occhio e due orecchie, verso i quali si lanciano frecce infiammate, espressione dei diversi sentimenti del cuore umano, chiamato ad aprirsi con tutte le sue capacità di ascolto al dialogo con l’Altissimo, svelato come l’opposto di una presenza inaccessibile e da cui semplicemente difendersi. Dio non solo si lascia incontrare. Cede all’abbordaggio dell’interlocutore umano in quanto è l’oggetto del desiderio amante dell’uomo in ricerca: a Dio si va incontro come l’innamorata del Cantico di Salomone, con le ali ai piedi.
Nel suo magistrale studio sulla letteratura edificante dei gesuiti del Seicento (Ad imaginem, Ginevra 2005), Ralph Dekoninck, mettendo in rapporto gli emblemi di Hugo con la tradizione che li aveva resi possibili, documenta che in questo genere di pedagogia religiosa emerge con cristallina trasparenza l’ancoraggio alla mobilitazione affettiva: per ascendere verso l’alto, si fa leva sulla “pietà ardente”, che non passa in primo luogo per la via delle speculazioni, ma tocca le corde del “cuore, la tendenza ad amare, le inclinazioni, i movimenti e le affezioni vive” (Pierre Poiret). La sua scaturigine più autentica era descritta come una “dottrina senza studio”, coronata dalle virtù più belle e più sante dell'”infanzia”. Bisognava ritornare come bambini per calarsi nella semplicità di una dedizione fondata sulla fiducia, sul docile abbandono, sulle “ardenti effusioni di un cuore tutto animato dall’amore più puro di Dio”. In cima a tutto il resto, valeva l’innocenza ingenua dell’aderire rispondendo a una chiamata privilegiata, con un trasporto più vicino all’ansia di piena fedeltà amorosa della Maddalena, o alla tenera affezione del discepolo prediletto da Gesù, che non alle sicurezze definitorie di una scienza del sacro spesso presuntuosa e senza radici, incapace di offrirsi solo come umile strumento di appoggio, al servizio dell’esperienza di vita trasfigurata dei veri credenti.