Chiedo scusa se incomincio questo diario di viaggio parigino con un fatto personale: in una stazione della metropolitana di Parigi mi è stato borseggiato il portafoglio e, prima che potessi bloccare la carta di credito, il ladro è riuscito a fare una sola spesa. Non lo dico per la somma, che con l’assicurazione ho già recuperato, ma per raccontare la stranezza dell’acquisto che il mio amico ha fatto utilizzando l’unica chance che aveva: circa 380 euro in un negozio di cosmetici, come mi ha annunciato un sms di controllo che il servizio della carta mi manda ad ogni uso della stessa. 



Questo la dice lunga sul concetto di povertà che abbiamo, pieno di pregiudizi: non credo infatti che ci sia uno spaccio clandestino di profumi o saponette, e così forse il mio ladro aveva bisogno di fare qualche regalino, o forse era una ladra. Ma questo descrive bene anche cos’è oggi Parigi, una delle città-emblema dell’occidente: un gigantesco emporio-modello commerciale. Non tutta, naturalmente, anche perché non esiste una sola Parigi: la città ha venti quartieri, gli arrondissements, a cui si devono aggiungere gli sterminati sobborghi e i comuni limitrofi, le banlieues, con cui Parigi passa dai poco più dei due milioni di abitanti del suo Comune ai dodici dell’area metropolitana. La particolarità è che ogni arrondissement e ogni banlieue è una città a sé, praticamente monoetnica e monoreligiosa. 



Gli stessi parigini francesi, diciamo così, si dividono i quartieri tra di loro: così, tanto per fare un esempio, il settimo arrondissement è abitato dai francesi legati ai valori della tradizione, anche cattolica, della Francia, con una certa idea di famiglia, di educazione, di politica. Esistono poi arrondissements islamici, cinesi, slavi… e difficilmente le enclave della città dialogano tra di loro, anzi pare che i fossati si stiano allargando. Nella zona che i turisti frequentano, più o meno di qua e di là dalla Senna con allungamenti verso Montmartre o gli Champs Elysees, è tutto un fiorire di negozi, hotel, ristoranti di ogni gastronomia mondiale, quasi sempre di bassa qualità; di trattorie tipiche o vere osterie parigine non c’è traccia e i ristoranti francesi doc sono inavvicinabili per le tasche del turista medio, dato che Parigi, secondo quanto ha recentemente rilevato The Economist, è la città più cara del mondo. Perché un italiano possa capire cosa si può permettere qui, deve aggiungere un terzo al prezzo abituale dei prodotti. Una pastasciutta da dieci euro in un ristorante normale, lì costa quindici. Ed è più cattiva.



La zona immediatamente sopra il giardino delle Tuileries intorno a Place Vendôme è quella delle grandi firme della moda parigina: i negozi, le cui vetrine mostrano un’ascetica sobrietà, stanno in alcune vie non appariscenti e tranquille. 

In Rue Cambon quello di Coco Chanel sembra un fortino: imponenti sorveglianti neri e calvi come il protagonista del film francese Quasi amici (che evidentemente ha lanciato uno stile perché la città è piena di eleganti giganti neri e calvi), attenti dietro gli occhiali scuri e in giacca e cravatta, sorvegliano che chi entra possa permetterselo, dato che comprare qualcosa è obbligatorio, e sono al servizio di chi è già dentro, cioè quasi solo donne arabe e asiatiche. 

Stessa cosa per i cinque piani illuminati di rosso di Louis Vuitton agli Champs Elysees, dove addirittura hanno posto un limite massimo di tre acquisti consentiti alle facoltose clienti. Capita così di incontrare davanti al palazzo, all’esterno, signore cinesi che hanno già consumato i loro bonus e chiedono alle turiste di entrare e comprare altre cose, foraggiate da loro. 

Ecco, questa è la Parigi che le masse dei quartieri e dei sobborghi e di tutto l’occidente ammira e invidia, fino a rubare carte di credito per potervi accedere, anche solo per qualche minuto. Questa descrizione è cattiva, naturalmente: Parigi è risaputamente bellissima, i panorami, gli orizzonti tra la Senna e Montmartre valgono da soli il viaggio, così come i suoi strepitosi musei, a cominciare dall’Orsay coi suoi impressionisti, al Louvre, dove una fila costante di visitatori sosta all’ingresso: d’altronde 28 milioni di turisti visitano ogni anno la città e gran parte di questi passa dal museo principe di tutti i musei. C’è da chiedersi, tra parentesi, cosa questa folla (la foule la chiamava drammaticamente Baudelaire, che la vedeva sorgere a metà dell’Ottocento) capisca veramente della massa di opere d’arte e di un percorso che non è esauribile nemmeno in una settimana di visite continuate. Soprattutto si capisce che le straordinarie bellezze di Parigi sono reperti del passato che galleggiano su un mare di consumismo e immagine: la torre Eiffel, Notre Dame, il Sacre Coeur a Montmartre, i ponti, i palazzi, la compatta e straordinaria architettura ottocentesca del centro, a parte essere esemplarmente conservati e gestiti, testimoniano di una civiltà e un’influenza culturale che oggi la Francia stenta e ritrovare. Davanti all’ingresso scenografico del Moulin Rouge folle di giovani si fanno fotografare e sono soprattutto ragazze. Anche da questo si capisce che il locale è più un modello femminile, dove ogni donna di un certo tipo, ampiamente propagandato da Parigi, vorrebbe esibirsi, anziché un mito per gli uomini, che non aspirano poi a farsi spennare (centinaia di euro una bottiglia di champagne) per vedere due seni scoperti.

Certo, qua e là monumenti e targhe commemorative ricordano che i grandi romanzieri che hanno fatto l’Ottocento, il secolo d’oro della narrativa, come Hugo, Balzac, Flaubert, Dumas qui hanno vissuto e lavorato, ma proprio nei giorni in cui ero a Parigi Le Figaro titolava: “La Francia alla ricerca del Proust perduto”. E alzi la mano chi, non specialista, sa citare il nome di un pittore parigino d’oggi. Ma tutti abbiamo sentito parlare dell’integrazione non riuscita delle banlieues e più di una volta, sul sagrato di una chiesa o nell’androne di un palazzo, ho incontrato clochard ben poco romantici dormire per terra ed elemosinare qualcosa, o donne in giro per la strada che con stratagemmi buffi hanno cercato di spillarmi qualche euro o persone vestite normalmente, come me, e perfettamente francesi frugare in un cassonetto. E un altro quotidiano ci racconta che uno dei fiori all’occhiello del paese, la celebre Tgv (ferrovie ad alta velocità) ha dimezzato i passeggeri e prevede migliaia di licenziamenti. 

Per questo, forse, Parigi è davvero un emblema ancora attuale dell’occidente, coi suoi punti interrogativi, il suo grande ed esemplare passato culturale e il vuoto del presente, la sua merce per le élites e quella per la foule sempre più distinte, un modello mondiale legato ormai solo all’immagine e al denaro, da sottrarre appena si può, in metrò o altrove, e da spendere in cosmetici per partecipare al mito. 

Post scriptum: nel portafoglio rubato avevo, oltre alla carta di credito: bancomat, carta d’identità, patente, tesserino sanitario. Giunto in Italia, in due ore di una mattina passate negli appositi uffici ho riottenuto tutto, documenti e soldi. Giusto per spezzare una lancia a favore del mio paese.