LIPSIA – “Non vado in chiesa perché mia nonna mi ha detto che lì c’è uno spauracchio vestito di nero” (ich gehe nicht in die Kirche, weil meine Oma mir gesagt hat, dass darin der schwarze Mann ist): questa frase di una ragazza di undici anni del ginnasio cristiano di Jena, la città della Turingia in cui hanno insegnato Schiller ed Hegel, è un riassunto adeguato del simposio organizzato dall’associazione Barbara Schadeberg, tenuto ad Erfurt, la città in cui Martin Lutero è stato monaco agostiniano, sul tema: “Far vedere in modo evangelico il profilo cristiano nel cambiamento religioso del nostro tempo. Impulsi per una comprensione protestante dell’educazione (“Evangelisch Profil zeigen im religiösen Wandel unserer Zeit. Impulse für das protestantische Bildingverständnis”).
Visto che a livello di pedagogia della religione e di presenza nelle scuole i problemi che hanno le sorelle e i fratelli evangelici in questa forma di insegnamento sono simili a quelli che abbiamo come cattolici, mi permetto di scrivere su questo tema, che ha una valenza certamente anche specifica per la regione in cui io stesso mi trova ad agire da più di undici anni: la Sassonia-Anhalt, considerata, da alcune statistiche recenti, come una delle zone più secolarizzate del mondo.
La frase che ho citato all’inizio mostra sia la complessità di motivi (linguistici e di fantasia) che i bambini hanno per non andare in chiesa, sia la tesi principale del convegno. L’insegnamento di religione infatti non può che tener conto di questo fatto: lungi ormai dal “non possiamo non dirci cristiani” (Benedetto Croce), oggi – parafrasando Croce – in Sassonia non possiamo non dirci agnostici.
Uta Hallwirt, che ha tenuto l’ultima delle conferenze del simposio, ha fatto comprendere che questa situazione di non appartenenza ad una confessione è una realtà da tener presente anche in una scuola evangelica, che nell’esempio di una di essa, nel Mecklenburg-Vorpommern, presenta, nell’est della Germania, questa situazione: 44% di cristiani evangelici, 43,2% di non aventi una confessione, 8,6% di cristiani cattolici e 4,2% del resto.
Gert Pickel dell’Università di Leipzig ha presentato un’analisi sociologico-matematica, per così dire, della situazione della religione e della religiosità nella Germania riunita. Pur nelle tantissime tabelle e differenziazioni (per età, per regione…), il messaggio era chiarissimo: la secolarizzazione è il destino dell’occidente. Che nell’ovest della Germania vi sia una non appartenenza ad un confessione poco superiore al 30%, mentre nell’est arrivi quasi al 70% è solo una questione di tempo; la tendenza, le tabelle lo dimostrano, è chiara: individualismo, pluralismo e secolarizzazione sono il nostro destino inevitabile.
Rimangono almeno due incognite: la prima è quella dei social media. Gert Pickel ha detto, rispondendo a una mia domanda sui social media come smentita “sociologica” all’individualismo, che nella rete non si parla di religione… cosa che corrisponde ad una delle sue tesi sul silenzio pieno di vergogna a parlare di questo tema, ma non sono molto sicuro che risponda alla realtà. La seconda incognita è quella, qualora i cristiani abbiano ragione a credere ad un Dio come presenza, di cosa farà Lui nel tempo prossimo e futuro: anche attraverso l’analizzata indifferenza religiosa. La simpatia che si ha per papa Francesco, proprio in questi ambiti secolarizzati, mi sembra presenti in modo concreto il “metodo” di Dio per agire in un mondo determinato dall’indifferenza religiosa.
Michael Domsgen della Martin-Luther-Universität- Halle-Wittenberg e la professoressa Andrea Schulte dell’Università di Erfurt, pur con qualche differenza nei dettagli, hanno presentato la situazione e le sfide dell’insegnamento di religione nella continua diminuzione dell’appartenenza ad una confessione ed in un contesto di indifferenza religiosa. Cosa fare? Bisogna tenere conto delle differenze regionali (ovest ed est della Germania), bisogna parlare in modo plausibile, sensibile ed aperto dei temi religiosi, cioè senza voler arrivare ad un certo risultato, rinunciando anche all’idea che vi sia un “senso religioso” come percezione di un apertura o bisogno d’infinito (questo non è documentabile dalle tabelle sociologiche), ha precisato Andrea Schulte. È nota la frase di un teologo americano (Reinhold Niebuhr), citata spesso da don Luigi Giussani, che non vi è nulla di più insensato che dare una risposta ad una domanda che non è stata posta; ed in questo senso si può certamente imparare molto da questo modo “evangelico” di impostare l’insegnamento di religione nella nostra epoca, cioè un insegnamento di religione senza volontà di dominio, cosa questa che, tra l’altro, è stato uno dei temi più forti del pontificato di Benedetto XVI, con cui papa Francesco è completamente d’accordo e di cui con il suo proprio stile ne mostra a tutto il mondo la sua efficacia. Insomma si tratta, per quanto riguarda l’insegnamento di religione, di pronunciare analogamente ad un chiaro no ad una teologia “politica” (Massimo Borghesi), anche un chiaro no ad un insegnamento di religione “politico”, ma le proposte fatte nel convegno nell’ambito del pur magistrale intervento di Martin Schreiner dell’Università di Hildesheim, sono state solo a livello di “comunicazione adeguata”. Ma se proprio questo fosse l’errore da evitare? Se invece di negare “il senso religioso”, per rispetto quegli atei che non vogliono sentire parlare di religione in qualsiasi forma, si cominciasse a “vivere” quello che il “senso religioso” testimonia − un cuore aperto a tutti e a tutta la realtà, in tutti i suoi fattori − non avremmo fatto alcuni passi chiari, anche dal punto di vista di ciò che è una comunicazione adeguata?
Vorrei qui raccontare una sequenza di una mia ora di religione nella dodicesima classe (i ragazzi hanno diciotto anni), tra una ragazza protestante (Birgit) ed una che viene da una famiglia non religiosa (Johanna), quando abbiamo letto insieme il quarto capitolo di Giovanni, l’incontro al pozzo tra la donna samaritana e Gesù. Birgit: perché Gesù parlando con la samaritana non rimane al suo livello linguistico?, non si accorge che lei non lo comprende? Johanna: ma non era questa (che lo comprendesse ad un livello linguistico di comunicazione, nda) la sua intenzione; Gesù voleva che lei si accorgesse della presenza eccezionale di colui che stava parlando con lei. Etc.
Credo che un vero ritorno – il cuore della riforma evangelica – al prototipo dell’evangelizzazione, una buona idea di Michael Domsgen, rimasta però ad un livello per me troppo astratto, dovrà essere un ritorno a quella presenza eccezionale che è Cristo stesso, mai nominato esplicitamente (a parte che nella bella preghiera serale nella chiesa del convento agostiniano di Erfurt, dove Lutero aveva festeggiato la sua prima Santa Messa).