Nel nostro Paese è un pensatore ancora scarsamente conosciuto, seppur sia stato uno dei maggiori filosofi politici inglesi del Novecento e, dopo una lunga esperienza intellettuale a Cambridge e Oxford, abbia insegnato alla London School of Economics dal 1951 al 1968, succedendo ad Harold Laski sulla cattedra di Scienza politica.
Soltanto pochi, ma attenti, studiosi italiani infatti si sono soffermati sull’opera di Michael Oakeshott (1901-1990). Autore di importanti lavori come Experience and Its Modes (1933), Rationalism in Politics (1962) e On Human Conduct (1975), il filosofo inglese ha offerto lucide e penetranti analisi sull’evoluzione del pensiero politico moderno, sulla critica al razionalismo, sulla riflessione di Thomas Hobbes e sulla traiettoria dello Stato moderno.
Molto probabilmente, il quasi completo anonimato che Oakeshott sconta in Italia è anche dovuto alla sua scarsa propensione – così paradossalmente lontana dalla frenesia che assilla l’università contemporanea – a pubblicare i suoi scritti, rimasti (in un numero non esiguo) inediti, e consegnati alle stampe soltanto postumi. Non può allora che essere salutata con grande favore la recente edizione italiana, a cura di Agostino Carrino, di The Politics of Faith & the Politics of Scepticism. Il manoscritto fu ritrovato nel cottage sulla costa del Dorset in cui Oakeshott aveva trascorso la sua vecchiaia dall’amico Timothy Fuller e pubblicato alla metà degli anni Novanta del secolo scorso.
In La politica moderna tra scetticismo e fede (Rubbettino, 2013, pp. 184), il lettore può trovare un affascinante viaggio attraverso il pensiero politico dell’Europa durante gli ultimi cinquecento anni. L’intento di Oakeshott è quello di analizzare idee, linguaggi e pratiche, che hanno caratterizzato l’attività di governo nel corso dell’età moderna, mostrando al tempo stesso l’intrinseca “ambivalenza” e la perdurante “ambiguità” della politica.
Il percorso tracciato dal filosofo inglese è tanto sorprendente quanto originale. E lo è non soltanto per l’interpretazione che viene offerta di alcuni autori (come Hobbes e Machiavelli) o la riscoperta di altri (come il marchese di Halifax), ma anche e soprattutto per le categorie concettuali che egli individua. Accantonando la più consolidata (e, per molti versi, ormai usurata o superata) distinzione tra destra e sinistra, Oakeshott individua i due “poli” o “stili” tra cui ha fluttuato l’attività politica a partire dal XV secolo rispettivamente nella “politica della fede” e nella “politica dello scetticismo”.
Termini, questi ultimi, che tuttavia non rispecchiano il naturale significato che siamo abituati solitamente ad attribuirgli.
Nella politica della fede, che è paradossalmente all’opposto di ogni autentica esperienza religiosa, c’è la convinzione che sia compito della politica raggiungere la “perfettibilità umana” e che il governo abbia il dovere di procurare la “salvezza”.
Inserito in un orizzonte di redenzione esclusivamente mondana, l’uomo si trova pertanto alla mercé del potere. La persona è completamente suddita di una politica “illimitata” e di un governo che è “competente su tutto”. “Onnicompetenza” e “capillarità” dell’attività di governo – sempre proiettata su un indefinito futuro e mai attenta al presente – sono allora i sintomi più evidenti di un modo di fare politica in cui lo Stato attua una continua vessazione sulla società.
Al contrario, nella politica dello scetticismo è intimamente presente una “prudente diffidenza” verso l’attività di governo, che, se non può mai essere rivolta al perseguimento della perfezione umana, deve altresì essere necessaria ad attenuare l’asprezza del conflitto tra interessi e desideri contrastanti all’interno di ciascuna società. Rifuggendo sia l’anarchia sia un individualismo radicale, lo scettico – secondo l’autore – è a favore non tanto di un governo debole, quanto piuttosto di un governo minimo: ossia un governo che rispetti ciò che già pre-esiste nella società.
La riflessione di Oakeshott, tuttavia, non si limita a descrivere i caratteri di entrambi questi “idealtipi”, che rispecchiano quella irrisolta tensione costitutiva dello Stato moderno tra societas e universitas (già al centro dell’attenzione del filosofo inglese). Egli, infatti, ne sottolinea i pericolosi eccessi, così come le più evidenti debolezze. Elementi che hanno reso sempre indispensabile il bilanciamento reciproco tra la “politica della fede” e la “politica dello scetticismo”. Un bilanciamento rinvenuto in quello che egli definisce “il principio del mezzo in azione”, attraverso cui il governante può tenere con appropriatezza e moderazione la “barca” della politica “in stato di equilibrio”.
Con La politica moderna tra scetticismo e fede ci viene offerta l’opportunità di scoprire per la prima volta, approcciare nuovamente o conoscere meglio il pensiero di un autore – giustamente annoverato tra i massimi esponenti del pensiero conservatore del secolo scorso – raffinato e complesso che ha offerto illuminanti intuizioni sulla politica. Proprio quella politica che, in un famoso brano della sua Introduzione al Leviatano di Hobbes, Oakeshott – con ironia e molta assennatezza – definiva “una forma di attività umana di second’ordine, non un’arte e neppure una scienza”.