Le riflessioni (editoriale del Corriere della Sera di ieri, 16 gennaio) di Ernesto Galli della Loggia sul “destino parallelo” di declino di tutto ciò che è italiano nel mondo, e della Chiesa italiana come suo ruolo nella Chiesa di Roma, alla luce delle recenti nomine cardinalizie di Papa Francesco, colgono certamente un nodo del “sistema Paese”. 



Non so, però, se lo sciolgono in modo adeguato. Sia chiaro: un elemento routinario e burocratico della Chiesa “istituzione” in Italia, il farsi bastare il rispetto del conformismo sociale, più che l’adesione ai valori del magistero, una certa inazione nel confronto intellettuale a tutto campo, lo “scisma silenzioso” della Chiesa di base, la crisi di leadership per un eccesso di allineamento alla vicenda politica del Paese, sono tutte cose che la vita della Chiesa italiana non si è fatta mancare negli ultimi decenni. Ma in verità questa “amministrazione burocratica del sacro”, per dirla con Galli, declinazione parassitaria del “carisma” che l’ha messa al mondo e la anima, è una costante della vita della Chiesa, una connaturale, in quanto istituzione, sua tentazione: il “temporalismo” cui ora in maniera greve, ora in maniera trionfante è stata sempre esposta. Per ragioni storiche in Italia più visibile che altrove. 



Ma per restare più vicini agli anni su cui giudica Galli della Loggia, già il Concilio Vaticano II aveva diagnosticato questo “declino” burocratico nei paesi di antica evangelizzazione, e non solo in Italia. La recente istituzionalizzazione ecclesiale del problema della Nuova Evangelizzazione ha origini in quella consapevolezza. D’altro canto contro questa burocratizzazione della Chiesa, anche italiana, ma non solo italiana, il pontificato di Karol Wojtyla s’era fatto carico di “sdoganare”, dopo anni di prudenza, i “movimenti”, e le nuove comunità. Un punto fermo fu il congresso mondiale dei movimenti convocato da Giovanni Paolo II nel 1998, e culminato nella giornata del 30 maggio in piazza San Pietro. Già in quella piazza davanti agli occhi della Chiesa di Roma c’era sì parecchia Italia, soprattutto con Comunione e liberazione, ma anche molto più che l’Italia, anche con Comunione e liberazione (già diffusa in decine di paesi). Già allora, la dimensione geopoliticamente “mondiale” della “vigna del Signore”, la Chiesa universale, era evidente. 



In questa situazione, anche ammesso che la Chiesa italiana fosse stata più “autorevole” di quel che Galli non senza ragione ritiene agli occhi del Papa nella vicenda delle nomine cardinalizie, è opinabile che un Papa che ha necessità di “portare” a Roma quanta più Chiesa del mondo possibile, potesse guardare più di tanto alla Cei. 

Accorciare le distanze da Roma, non far vivere alla “base” mondiale della Chiesa il primato petrino come troppo espressivo della “provincia” italiana della Chiesa, è strategico per una Chiesa che vuole andare alle “periferie” del mondo; che ha necessità di portarle, quelle periferie, nel “cuore” della Chiesa; non solo in modo pietistico-devozionale, ma anche innervandole nell’Istituzione romana e facendosene innervare.

Nel giudizio di Galli sulle nomine cardinalizie di Francesco c’è troppo di vicenda domestica – pur vera e urgente – della provincia italiana della Chiesa, e vi si allunga una giusta angoscia per la condizione del sistema paese. 

Una visuale si proietta anche nel giudizio tranchant in cui Galli “chiude” l’esperienza di Cl: “autonomizzazione perversa”, che nel “triste precipizio nel sottogoverno” ha concorso al declino della Chiesa italiana, contribuendo a farla trovare delegittimata agli occhi della “nuova” Chiesa di Roma, universale, e cioè sempre più “mondiale” di Francesco. Si rischia così di perdere un giudizio equanime, proprio perché storico sulla realtà, anche in Italia, di Cl; troppo schiacciandolo sulle vicende della sua “provincia” lombarda; sul suo eccesso di “temporalismo”, che certo c’è stato; e neanche poi tanto capace di sfondare a Roma, dove è stato fondamentalmente gregario (“sottogoverno” sono i risultati che pour cause Galli gli imputa) dell’immanentismo mondano senza complessi del berlusconismo. 

“Temporalismo”, però, che è stato solo una parte, già in Lombardia, della vicenda di un movimento che rimonta agli anni 50 ed è presente in 80 paesi; e che oltretutto con quell’eccesso di temporalismo, riprendendo col vigore di Julián Carrón il filo di una preoccupazione già molto forte di Giussani, sta cercando, anche con interno travaglio, di fare conti non banali. 

Almeno questo movimento ho incontrato in questi anni che lo frequento, e sono più d’uno, al meeting di Rimini. Tuttavia è utile che gli scandali avvengano; ed è possibile che anche la provincia italiana della Chiesa, se aspira a riconquistare al made in Italy nel collegio cardinalizio parte del prestigio perso, sia spinta a una maggiore “produttività” innanzi tutto pastorale, come i tempi di oggi richiedono anche in Italia.