I titoli dei quotidiani tradiscono spesso il contenuto degli articoli che introducono, pur di attirare l’attenzione del lettore; tale regola non è stata disattesa anche nel caso delle recensioni dedicate al recente libro di Franco Cardini e Sergio Valzania, La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la Prima Guerra Mondiale



Sia il Corriere della Sera, ad esempio, sia QN (Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione) dei giorni scorsi hanno, infatti, presentato l’ultima fatica dei due studiosi affermando perentoriamente che essi «riscrivono la Storia», e il loro libro «ribalta le certezze». Ma di quali certezze si tratta? Secondo quanto riferiscono i due quotidiani, quelle che fanno convenzionalmente discendere lo scoppio della prima guerra mondiale dall’attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914: di contro, nell’opinione degli autori, la “scintilla” del conflitto sarebbe da individuarsi nell’attacco italiano alla Libia, avvenuto nel settembre del 1911. 



Ad esempio, secondo Luciano Canfora, nella sua recensione sul Corriere, Cardini e Valzania farebbero «emergere la concatenazione di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione italiana della Libia, alla deflagrazione della grande crisi», dimostrando così il ruolo “cinico” e “destabilizzante” dell’Italia. Traspare, dalle parole del noto storico della letteratura greca, una visione della storia incline al moralismo nel suo ruolo di magistra vitae, congiuntamente a un approccio determinista e storicistico che lo portano a collegare il volume in oggetto con l’insegnamento tucidideo e la rivalità delle «grandi potenze che oggi si fronteggiano nell’Oceano Pacifico», per sottolinearne la novità nell’interpretazione sulla vicenda italiana in Libia. 



Ma qui allora, di quale “novità” si tratta? Il ruolo della guerra italo-turca nella destabilizzazione del quadro internazionale è, infatti, un’acquisizione della storiografia che – come lo stesso Canfora riconosce – può essere fatta risalire addirittura all’epoca fascista. La relativa facilità con la quale l’Impero ottomano fu sconfitto dall’Italia, all’epoca non certo considerata una potenza militare di prima grandezza, spinse i piccoli Stati balcanici ad affrancarsi dall’egemonia turca, dando origine a una serie di conflitti il cui ultimo episodio (per il momento) fu, appunto, l’attentato di Sarajevo. 

Cardini e Valzania hanno, piuttosto, il merito di articolare il proprio discorso non solo sull’aspetto che i quotidiani hanno posto in evidenza, ma sul rapporto tra guerra e progresso tecnico-scientifico, e su quello tra politica estera e politica interna. Le guerre balcaniche contribuirono allo scoppio della Grande Guerra perché confermavano «l’assunto […] per il quale il fenomeno bellico nella modernità aveva la caratteristica della breve durata, dato l’apporto che tecnologie fornivano alla velocità del massacro», mentre per la guerra di Libia «non può essere negato l’esempio offerto da Giolitti, che alla guida di una grande potenza [!] aveva voluto a ogni costo combattere una guerra contro l’impero ottomano, immaginando di trarne vantaggi di prestigio e di consenso in politica interna». 

Proprio la vicenda controversa della guerra di Libia, però, sta qui a dimostrare quanto entrambe le affermazioni debbano necessariamente essere sfumate, cosicché non è possibile individuare un’unica causa scatenante, una “scintilla” esclusiva responsabile di quanto seguì. 

Fu la guerra italo-turca, infatti, a vedere un gran numero d’innovazioni tecnologiche in campo militare – tra le quali l’uso dell’aeroplano per i bombardamenti e le ricognizioni – e il loro fallimento di fronte ad una guerriglia che già un secolo fa era in grado di neutralizzare il potenziale bellico di una potenza industriale. In questo senso, il conflitto italo-libico è da considerarsi “moderno” perché fu il primo a dimostrare, ben oltre le rivolte sudanesi del Madhi e del Mad Mullah represse da Kitchener quindici anni prima, come la forza sociale della religione, espressa dalla confraternita senussita, fosse un elemento fondamentale per condurre una resistenza contro un avversario tecnologicamente superiore.

È vero che Giolitti dichiarò guerra alla Turchia per un prioritario interesse di politica interna, collocandosi in questo senso nella scia della tradizionale attitudine (piuttosto velleitariamente) aggressiva dell’imperialismo crispino – si pensi, ad esempio, alla lettura retorica e “letteraria” che di quest’ultimo è stata proposta a suo tempo da Roberto Battaglia in La prima guerra d’Africa (Torino 1958). Con tutto ciò, non è però possibile dimenticare – come correttamente si guardano bene dal fare gli autori – che senza l’appoggio della Germania, l’Italia non si sarebbe mai avventurata nell’impresa di Tripoli.

In tal modo, però, il conflitto italo-turco va primariamente inserito nel più generale quadro di rivalità che vedeva contrapporsi, in Europa, da una parte l’Inghilterra e la Francia (che non a caso fornì aiuti alla Turchia) e, dall’altra, la Germania e i suoi alleati. A partire dal conflitto anglo-boero del 1899-1902, non erano certo mancate le occasioni di attrito tra le grandi potenze, a partire dalla due crisi marocchine (1905 e 1911) e la convinzione di un’imminente deflagrazione a livello europeo era diffusa in tutto il continente, come descrive con dovizia di particolari, ad esempio, lo storico inglese Niall Ferguson nel suo La verità taciuta (tr. it. Milano 2002). 

L’attacco alla Libia dimostrò, forse, più la capacità di Antonio Giolitti di sfruttare a proprio vantaggio una delicata situazione internazionale, in linea con la plurisecolare tradizione diplomatica italiana, piuttosto che l’incoscienza di uno statista che, solo due anni più tardi, avrebbe raccomandato al Regno d’Italia di astenersi dall’entrare nel conflitto mondiale, perché in tal modo si sarebbe ottenuto “parecchio”.

I decenni seguenti e le drammatiche vicende belliche del Secolo Breve, evidentemente non solo nostrane, avrebbero, purtroppo, dato ragione all’inascoltato consiglio dell’uomo di Dronero.