L’idea che generalmente si ha della crociata è quella di un pellegrinaggio armato diretto alla conquista e alla difesa dei Luoghi Santi. Tuttavia essa non si esaurì negli epici scontri tra i cavalieri crociati e le armate di Saladino, come buona parte della narrativa e della recente filmografia vorrebbe farci credere. Si trattò, invece, di un fenomeno di lungo periodo, nel quale confluirono aspirazioni e significati molto diversi. Proprio in questo sta il maggior merito del contributo di Marco Pellegrini (Le crociate dopo le crociate. Da Nicopoli a Belgrado, 1396-1456, Il Mulino, Bologna 2013): aver concentrato la propria attenzione su quelle che lui stesso chiama “crociate tardive”, ovvero le spedizioni militari che, tra 1396 ed il 1456, vennero organizzate dall’Occidente cattolico per contrastare l’espansionismo turco sulla frontiera balcanica.



La dinastia ottomana, che da piccolo emirato di confine era riuscita ad imporsi come la realtà più dinamica ed intraprendente del XIV secolo, rese del tutto irrealistiche le pretese occidentali di ripristinare il controllo di Gerusalemme, portando lo scontro nel cuore dell’Europa orientale. Si venne presto a creare una netta differenza tra le esigenze dei popoli più direttamente minacciati dalla dilagante espansione ottomana (come per esempio i polacchi, gli ungheresi e i sudditi dell’impero bizantino), ben disposti, pur con rilevanti distinguo e diffidenze reciproche, nei confronti dei reiterati appelli alla crociata formulati dal papato, ed il resto della cristianità, minata al suo interno da conflitti ed interessi contrastanti. Molto prudente e realistico rimase, per esempio, l’atteggiamento di quegli stati italiani, in particolare le Repubbliche di Venezia e di Genova (cui s’aggiunse il regno di Napoli), che avevano interesse a tutelare i propri commerci e la loro presenza coloniale nel Mediterraneo orientale. Il loro rapporto con gli ottomani fu, infatti, spesso improntato al mero calcolo, considerando il Turco come un altro attore politico col quale raggiungere compromessi pur di acquisire l’egemonia sulle rotte levantine.



A fronte della mitizzazione in chiave epica proposta dalla cultura dell’onore che guardava allo spirito bellico del passato, emerge chiaramente come l’Europa di quel tempo fosse percorsa da spinte modernizzatrici che si contrapponevano al fascino ancora esercitato, soprattutto tra i membri dell’aristocrazia, dal ricordo delle imprese dei cavalieri in Terrasanta. L’ideale a cui si ispiravano i loro ultimi eredi era imbevuto di codice etico proiettato verso l’esaltazione di tornei e di duelli, che sottostimava il nemico in quanto “infedele” e che si rivelò non solo obsoleto, ma persino controproducente. 



L’esempio più drammatico viene descritto da Pellegrini nel corso della crociata del 1396, quando la nobiltà francese, considerando da pusillanimi il prendere informazioni sulla natura del terreno o sulla consistenza numerica del nemico, e concependo lo scontro frontale della cavalleria come unico degno di essere combattuto, venne sanguinosamente sopraffatta nella battaglia di Nicopoli. 

Non fu perciò un caso se l’Europa cristiana, indebolita da una crisi di valori e di identità, si sia trovata in seria difficoltà a fronteggiare una realtà politica giovane ed in piena espansione come l’impero turco. 

La storia delle crociate tra fine 1300 e la prima metà del 1400 è, infatti, anche la storia della progressiva ascesa degli ottomani. Sotto la guida di personaggi del calibro di Murad II e di Maometto II, una volta risollevatisi dalla tremenda sconfitta inflitta da Tamerlano nel 1402, essi furono in grado di assurgere al ruolo di potenza a livello globale, acquisendo, con la conquista di Costantinopoli del 1453, la propensione alla creazione di un vasto impero multietnico a vocazione universale. A contrastare le dilaganti armate dei giannizzeri si posero uomini entrati a loro volta nella leggenda, come Giovanni Hunyadi, Giorgio Castriota Scanderbeg o, infine, il governatore della Valacchia Vlad II, il cui figlio avrebbe dato origine alla figura di Dracula.

Attraverso una narrazione che tiene uniti interessi politici e religiosi, rivalità personali e programmi universali, fantapolitica e realpolitik, alleanze e tradimenti, vittorie e sconfitte, Marco Pellegrini ci restituisce un suggestivo affresco nel quale il rigore di pagine dense e ben documentate si unisce al fascino di una storia di tensioni e conflitti da cui è dipeso il destino dell’Occidente moderno. Il lessico e l’idea di crociata continuarono ad esercitare la loro forte presa anche dopo che si era chiusa la stagione delle più “classiche” crociate. La loro tenace persistenza era ormai tanto radicata all’interno della coscienza collettiva europea da riemergere, come un fiume carsico, per molti secoli ancora, raffreddandosi, una volta per tutte, solo di fronte all’avanzata del razionalismo illuminista del Settecento.

(Luigi Robuschi)