La ricorrenza dei 150 anni della morte della marchesa Giulia Falletti di Barolo (1786-1864), nobildonna e benefattrice di origini francese ma vissuta a lungo a Torino, celebrata nei giorni scorsi con un convegno e varie altre manifestazioni ha offerto l’opportunità non solo di far rivivere la generosità di Giulia, ma anche di rileggere una importante pagina di storia civile e religiosa del capoluogo subalpino, quella della “carità sociale” e della “carità educatrice”. 



Chi conosce Torino sa che in poco più di un chilometro quadrato, in quelli che nei primi decenni dell’Ottocento erano i prati della periferia orientale della città (ormai totalmente assorbita dallo sviluppo novecentesco), sono dislocate le grandi opere della carità torinese che fanno dell’ex capitale probabilmente un caso unico al mondo per concentrazione e caratura dei suoi protagonisti. 



Se si muove dal centro urbano verso la periferia, sull’attuale corso Palestro si incontra l’Istituto degli Artigianelli dei padri Giuseppini fondati da Leonardo Murialdo. Poche centinaia di metri più avanti, oltrepassato il rondò della Forca (così detto perché lì avvenivano pubblicamente le esecuzioni capitali) ove è sistemato il monumento a ricordo di don Giuseppe Cafasso, confessore dei condannati a morte, si erge a sinistra la basilica di Maria Ausiliatrice con l’Oratorio di Valdocco di don Bosco. A destra si intravedono i fabbricati della Piccola Casa della Divina Provvidenza voluta da don Giuseppe Benedetto Cottolengo.



A poca distanza si trovano altre due opere, meno note ma ugualmente significative nella geografia della carità torinese: a fianco di Valdocco, l’Istituto del Buon Pastore e, sulla via della Consolata subito dietro il santuario, la casa delle suore di Sant’Anna, l’una e l’altra istituzione volute dai marchesi Carlo Tancredi e Giulia Falletti di Barolo. Una specie di “cittadella del bene” nella città che tuttora non cessa di assicurare benefici.

Tanta concentrazione riceve ulteriori e successive conferme in altre espressioni di santità di poco posteriori: Francesco Faà di Bruno, Giuseppe Allamano, Federico Albert per citare solo alcuni, così da fare di Torino ottocentesca uno straordinario caso di santità totalmente spesa al servizio delle persone. 

Perché a Torino sia stato donato un simile privilegio resta un insondabile interrogativo se guardato nell’ottica dei progetti della Provvidenza. Se esaminato con i semplici e umani dati della storia si possono tentare alcune risposte, ripercorrendo la spiritualità dei suoi protagonisti e i rapporti, talora molto stretti, che unirono numerosi dei personaggi che abbiamo appena citato. 

Possiamo formulare dunque qualche ragionevole ipotesi a partire dall’azione svolta dai tre centri ispiratori di presenza cristiana che, all’indomani della stagione rivoluzionaria e napoleonica, si sforzarono di “riconquistare i cuori sottraendoli alle forze del male”: la chiesa dei SS. Martiri dei padri Gesuiti, il Convitto Ecclesiastico adiacente la chiesa di S. Francesco d’Assisi e il palazzo dei marchesi di Barolo. Non tre luoghi distinti, ma tra loro strettamente collegati.  

I Gesuiti predicano una spiritualità diversa da quella settecentesca dai toni cupi, dalle analisi complicate e pedanti e dai difficili metodi di preghiera. I discepoli di Ignazio propongono un modello di vita cristiana semplice e incentrato sui doveri del proprio stato (la conformità alla volontà di Dio), ricca di devozioni che parlano non solo alla mente ma anche al sentimento. L’attenzione ai poveri, ai malati, agli indigenti è posta quale condizione indispensabile per compiere la volontà di Dio. L’educazione va guidata con amorevolezza, paternità spirituale, zelo incessante, buone maniere e per essere efficace deve essere “abilitante” e cioè fornire gli strumenti per trovare lavoro e sfuggire alla mendicità. 

Leggere, scrivere e far di conto da questo momento diventano un requisito indispensabile in ogni iniziativa caritativa. Niente di più sbagliato, dunque, che pensare ai cattolici di quegli anni come ai sostenitori dell’ignoranza, come purtroppo per molto tempo (ora fortunatamente non più) la storiografia liberale ha sentenziato. 

Per il perseguimento della nuova spiritualità centrata sulla carità sono necessari nuovi pastori. Non bastano i preti solo dediti alle funzioni religiose o in cerca di prebende remuneratrici, occorrono sacerdoti capaci di parlare al popolo. Il Convitto Ecclesiastico è precisamente il semenzaio ove cresce una nuova generazione di sacerdoti. Qui, alla scuola di Pio Brunone Lanteri e di don Luigi Guala – personalità molto legate alla spiritualità ignaziana – si formano il Cafasso (che poi del Convitto diverrà il direttore), don Bosco e molti altri sacerdoti impegnati nelle opere sociali, dagli oratori alla cura delle ragazze che oggi diremmo “a rischio”, quelle di cui si occupa in specie Giulia di Barolo. Si tratta spesso di figure, come ad esempio il teologo Giovanni Battista Borel, pressoché sconosciute ma che hanno spesso svolto un ruolo prezioso e discreto, ma strategico per unire le forze. È proprio don Borel, direttore spirituale presso gli istituti della marchesa Barolo, che presenta don Bosco alla nobildonna che lo aiuta nei primi difficili inizi e sarà lo stesso Borel a garantire il giovane sacerdote di Castelnuovo circa l’apertura dell’Oratorio.

La “riconquista dei cuori” e il “servizio alle persone” non è possibile se non si dispone anche di un modello organizzativo ed operativo adeguato. E’ questo il terzo tassello della specificità della carità torinese. Le opere dei marchesi di Barolo e del Cottolengo segnano una significativa svolta nel gestire la carità che non può essere non solo “soccorrevole” o occasionale, ma da gestire secondo criteri che oggi ciremmo “imprenditoriali”. 

Ogni loro opera (da quelle animate a favore delle donne da Giulia, alle iniziative educative del marito Carlo Tancredi) è infatti studiata alla luce della documentazione attinta da esperienze già realizzate in specie all’estero, è programmata secondo un piano distribuito nel tempo, dispone di finanziamenti certi (in qualche caso anche mediante l’intervento dello Stato) ed è affidata per la gestione a personale esperto. 

Le attività sono condotte secondo sperimentate procedure che assicurano efficacia all’intervento sociale, caritativo o educativo. In campo assistenziale e sanitario il Cottolengo pratica una strada analoga. 

Non c’è, dunque né occasionalità né improvvisazione nei santi, ma una lunga storia di fede intrecciata con una sapiente lettura dei tempi e con il coraggio di intraprendere strade nuove. 

Le giornate dedicate a far rivivere (e non solo ricordare) l’impegno religioso e civile della marchesa Giulia di Barolo – impegnata soprattutto sul fronte della protezione della donna e dell’educazione femminile, con una lungimiranza che risalta ancora a distanza di un secolo e mezzo – hanno inoltre offerto l’opportunità di oltrepassare la riflessione memorialistica, superando la tentazione di guardare con nostalgia al passato.  

Quali suggestioni scaturiscono da questi lontani eventi per chi vive nel XXI secolo? Il primo elemento da sottolineare è la capacità, come appena accennato, di interpretare la realtà dei tempi. Occuparsi dei bambini piccoli, dei giovani o delle donne carcerate o delle giovani pericolanti nei primi decenni dell’Ottocento non era scontato come può sembrare oggi. Si trattava di fasce di popolazione marginali e verso le quali non c’era un interesse pubblico nel senso che di solito oggi attribuiamo a questa espressione. Avviare iniziative in questi ambiti significava andare contro corrente e suscitare fatalmente qualche sospetto. 

Queste personalità, ben salde nella fede, non hanno, poi, timore di cogliere le potenzialità insite negli incipienti processi di modernizzazione, di tenerne conto e di valorizzarle: scuola, lavoro femminile, diffusione della stampa, tempo libero, la necessità di oltrepassare le consuete pratiche religiose, il tutto in funzione delle aspettative e dei bisogni dei ceti popolari. La società nella quale esse operano è percorsa da significativi mutamenti come l’irreversibile passaggio da una società di illetterati ad una fondata sulla lettura e scrittura e da una società ove l’ancora prevalente lavoro artigianale comincia a convivere con i primi processi di industrializzazione della città. 

Il bisogno di educazione, infine, percorre l’impegno ottocentesco dei cristiani torinesi (e non solo), vista come un processo umano globale e primordiale nel quale entrano in gioco e sono determinanti le strutture portanti dell’esistenza umana: la relazionalità e il bisogno di amore, la capacità di conoscere mediante il discernimento, l’esercizio della libertà in stretto rapporto con l’autorevolezza e la credibilità di quanti hanno il compito di educare.