«Sul posto dove è stata calpestata in modo così orrendo la dignità dell’uomo, la vittoria riportata mediante la fede è l’amore». Questa frase, che il beato Giovanni Paolo II pronunciò il 7 giugno 1979 presso il campo di sterminio nazista di Birkenau in Polonia, si trova come esergo di un importate volume uscito quest’anno a firma di Elena Rondena, dottore di ricerca e studiosa di italianistica dell’Università Cattolica di Milano, dedicato a una rassegna di opere letterarie di autori italiani deportati sotto il nazifascismo. Il libro affronta, per la prima volta con un metodo scientifico, un argomento che altrimenti sarebbe stato destinato a rimanere escluso dalla considerazione dei manuali scolastici e universitari, i quali si limitano, per lo più, al noto e a tutt’oggi imprescindibile «archetipo letterario» Se questo è un uomo di Primo Levi del 1947, lasciando però del tutto in ombra una vera e propria «ingente quantità di scritti concentrazionari» (p. 9).



Ma c’è un motivo più profondo che rende fondamentale la lettura del volume, in quanto l’esergo di Giovanni Paolo II richiama alla memoria una riflessione che il filosofo cattolico parigino di origine ebrea Gabriel Marcel, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, aveva fatto sulla persona: Marcel diceva che l’autentica dimensione dell’essere si rende manifesta nell’amore, in quanto l’amore si dirige verso la sostanza, quel “momento” dell’essere impossibile da ridurre a una categoria mentale e, quindi impossibile da negare con un atto del pensiero. 



Elena Rondena ha compiuto un lavoro meticoloso (si vedano la bibliografia e l’indice dei nomi) perché dà voce a venti autori italiani (ad oggi pressoché sconosciuti) per un totale di ventuno opere letterarie analizzate anche da un punto di vista stilistico. Credo, senza esagerare, che ciò sia un servizio reso non solo alla storia della letteratura italiana ed europea, ma anche (e soprattutto) alla riscoperta di quello che Marcel, attraverso la sua riflessione sulla persona individuale come oggetto d’amore, avrebbe potuto chiamare il senso pedagogico del limite. 

Si tratta di uomini e di donne che, pur non essendo morti nei lager, hanno potuto testimoniare che vi si veniva deportati in nome della stessa negazione del limite umano che si ritrova nelle parole che Eugenio Corti, in Processo e morte di Stalin (1962), fa pronunciare a Stalin: difendendosi dall’accusa di genocidio in un immaginario tribunale, il dittatore sovietico sosteneva di averlo praticato solo per eliminare chi si rifiutava di diventare puro, cioè privo del bisogno di redenzione e della corrispettiva apertura alla trascendenza. 



I campi di concentramento nazisti avevano come finalità, fin dal loro primo comparire in Germania (già all’inizio degli anni Trenta), di rieducare secondo questa stessa pedagogia ribaltata che, proprio in quegli anni, l’inglese Aldous Huxley denunciava nel suo romanzo fantascientifico Il mondo nuovo (1932), facendo dire al protagonista di preferire Dio, la poesia, la libertà, il pericolo reale, la bontà e il peccato alla garanzia di una felicità procurata e pianificata dallo Stato: nei campi nazisti anche il lavoro non aveva «una finalità prettamente economica, quanto piuttosto “pedagogica”: doveva semplicemente servire a punire il detenuto, umiliandolo, e a correggerne, piegandone ogni resistenza morale, gli atteggiamenti in contrasto con il nazismo» (p. 21).

In un colloquio avuto di recente, l’Autrice mi ha detto che chi, come i venti autori presi in esame, ha voluto raccontare la propria esperienza, ha dovuto meditare, perché non è possibile «riempire a caso la pagina bianca», nemmeno con un sentimento che non abbia, come si espresse un altro deportato, «radici profonde nell’animo umano» e che sia «una passione labile e caduca» (p. 10). Ed è davvero difficile negare che è proprio la mancanza di meditazione ciò che il nostro mondo si porta dietro come eredità degli errori ideologici che, alla metà del Novecento, produssero i lager e il gulag: la negazione dell’uomo come persona, cioè come ente il cui limite non può essere umanamente redento, contrassegna il nazismo e il comunismo e lascia sulla storia contemporanea un’ombra che sarebbe troppo facile sostenere essere stata arginata, se oggi, nel cuore dell’Europa, si può parlare di eutanasia sui bambini senza provare nemmeno un senso di vergogna.

Era invece privo di retorica, ma centrato sull’apologia dell’uomo come persona, il senso della riflessione di Hetty Hillesum, l’ebrea olandese della quale nel 2013 ricorreva il settantesimo della morte (avvenuta ad Auschwitz il 30 novembre 1943), quando scriveva, nei primi anni Quaranta del Novecento: «se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero». Il che era quanto dire che l’uomo, prima di essere parte di un’ideologia imposta dallo Stato, ha un valore che trascende tutto ciò. Ma era anche una risposta anticipata alle considerazioni di Carlo Levi del 1950 sull’impossibilità della poesia dopo Auschwitz, che invece, Theodor W. Adorno, nel 1966, avrebbe intuito restare possibile, anche se nella forma di un’arte «non serena» e (non per questo) meno umana.

Ho sentito dire, di recente, che sarebbe meglio che chi ha un romanzo nel cassetto non si azzardi a pubblicarlo, per non riempire di carta inutile le librerie, già piene zeppe di romanzi di nessun valore. Concordo, ma consiglio anche a chiunque abbia pagine inedite di provare a riscriverle dopo aver letto questo libro: soprattutto la parte dove l’Autrice discute del rapporto tra storia, memoria e immaginazione nella letteratura concentrazionaria, sostenendo che «persino gli elementi fantastici aiutano a perpetuare la memoria» (p. 60)


Elena Rondena, “La letteratura concentrazionaria. Opere di autori italiani deportati sotto il nazifascismo”, Edizioni Interlinea, 2013