Alla provocazione e alle suggestioni delle pagine di Oasis desidero reagire a caldo, con delle immagini da inviato sul campo, piuttosto che con delle tesi astratte.
La prima risale ai miei primi anni in Israele. Allora lo scontro non si basava su parametri religiosi. Nessun giornalista veniva attaccato in quanto non musulmano. I primi fenomeni di estremismo religioso risalgono agli anni 80 in Libano da parte di Hezbollah e agli anni 90 nei territori palestinesi da parte di Hamas. Quando chiesi in un’intervista a re Hussein di Giordania, nel ’92, come si sarebbe regolato con il nascente partito locale dei Fratelli musulmani, egli rispose: «Darò loro potere, e, una volta occupati a governare, si divideranno e perderanno la loro carica oppositiva». All’epoca, a parte in Iran, l’elemento religioso non era fondativo dello stato, non stava al cuore del dibattito politico nel mondo arabo.
La situazione cambiò radicalmente nel 2003, con la seconda guerra contro Saddam. E qui ho in mente una seconda immagine. Sono i miei collaboratori iracheni, Abu Raya, sciita, e Abu Omar, sunnita, che improvvisamente mi dicono di frequentare due moschee diverse, mentre fino a quel momento la questione della loro appartenenza religiosa non aveva avuto alcun peso. Iniziava allora a diventare chiara quella differenza sunniti-sciiti che sarebbe sfociata in Iraq in una guerra civile alla quale tuttora assistiamo.
Il fenomeno del fondamentalismo islamico condiziona pesantemente adesso le conseguenze delle cosiddette “primavere arabe”. L’Egitto è davvero in una situazione molto difficile. C’è la questione economica, senza dubbio, ma anche quella politica. Credo nel valore del processo democratico e nel rispetto dei suoi risultati, dunque non esitai a definire “golpe” quanto avvenuto nel luglio scorso. Ma dall’altro canto, i Fratelli musulmani stavano davvero modificando l’assetto dello Stato, imponendo un regime confessionale. Per fare un solo esempio, aveva destato scalpore la nomina a governatore di Luxor del capo della cellula terrorista colpevole della strage di turisti nel 1997. Poco tempo fa ho fatto un viaggio tra le chiese dimenticate tra Minia e Assiut: si parla di centinaia di chiese bruciate dopo il golpe di luglio, di attacchi alle comunità, non tanto omicidi, quanto violenze diffuse alle cose e agli stabili. E questo non sappiamo dove sfocerà.
La Libia è per noi il Paese più vicino dal punto di vista energetico, ma anche tanto lontano, non ha flussi turistici, se ne parla molto poco sui media. Ci colpisce meno dell’Egitto, ma la Libia è un’altra catastrofe. Mi ricordo che all’epoca della caduta di Gheddafi seguivo le milizie che piano piano, con l’aiuto della Nato, si spostavano da Bengasi verso Tripoli.
A un certo punto, dopo Brega e i centri petroliferi verso Sirte, cominciano a incendiare le abitazioni, a uccidere gli abitanti. Ci furono delle violenze, con l’ombrello della Nato, raccontate poco, e queste ci fanno capire le violenze di oggi, di un Paese incapace di darsi una propria coesione, nonostante la sua enorme ricchezza potenziale.
Alla Siria il numero di Oasis dedica ampio spazio. Io personalmente ne parlo con grande tristezza. Vedo che c’è un’intervista a Michel Kilo. L’ho potuto incontrare a Damasco durante la primavera del 2000. Credeva che Bashar Assad potesse portare una ventata di cambiamento non violento, ma non è stato così. In questo momento in Siria è il caos. Posso citare il caso della mia amica Razan Zeitune, di cui nessuno ha parlato: è un’avvocatessa per la difesa dei diritti umani in Siria, imprigionata più volte dal regime. Quando è sparita, all’inizio delle rivolte, tutti noi pensammo che la responsabilità fosse delle milizie di Asad. Oggi non sappiamo. Questo vi dà il senso della confusione, non sappiamo più di chi fidarci, non sappiamo chi sta con noi e chi ci venderà al nemico o a semplici banditi a caccia di taglie. Perché in un Paese in cui si è passati da un reddito di 500-600 dollari al mese a 5-6, tutto è possibile. Ti rapiscono per soldi, ti vendono.
Di fatto, ormai è nata un’area sunnita semi-indipendente tra Siria e Iraq, l’ho visto pochi giorni fa andando a Ramadi, in Iraq. Questo fatto, come altri elementi scaturiti dalle rivolte arabe, stanno scardinando gli equilibri creati dall’accordo Sykes-Picot del 1916. Per questo è necessaria un’attenzione costante per riuscire a comprendere tutti i fattori in campo.
In questo sono grato a Oasis per l’attenzione sui grandi fatti internazionali. Quando ho iniziato a lavorare come inviato da Israele, negli anni Ottanta, c’era un interesse molto più grande e una generosità più aperta verso questi temi. Ora è come se l’Italia fosse ripiegata su se stessa e sulla sua crisi. Mentre il sistema dei media tradizionali rischia di trascurare l’evolversi quotidiano delle dinamiche di questa regione calda del mondo, Oasis invita a riflettere su quanto avviene in Medio Oriente e sulle sue possibili ricadute anche nelle regioni circostanti.