C’è chi sostiene che l’affermazione della verità non rende liberi e sull’accettazione o sul rifiuto di questa idea si gioca oggi anche il futuro del cristianesimo, in quanto religione che ha una pretesa veritativa universale. D’altra parte, va anche detto che chi non ha incontrato nel cristianesimo un’esperienza liberatrice dell’umano difficilmente può comprendere cosa significhi la forza liberatrice della verità.
Ma ci si aspetterebbe, comunque, che chi non crede che la verità rende liberi sia, almeno lui, liberale nei confronti di quelli che lo pensano. E invece non sempre avviene così, come è dimostrato dal recente libro di Marco Marzano e di Nadia Urbinati: Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2013. Qui, il professor Marzano critica l’idea di laicità propria del cardinale Angelo Scola (consistente in una concezione della libertà religiosa intesa come ricerca della verità e non come indifferentismo religioso) e sostiene l’equazione fra affermazione della verità e intolleranza: l’affermazione pubblica della verità è fonte di discriminazione nei confronti di chi non si riconosce in essa.
Si potrebbe obiettare che l’intolleranza nasce non dall’affermazione della verità, quanto piuttosto dalla sua negazione, perché, laddove non c’è un terreno comune di principi condivisi, restano solo opinioni contrastanti e in inconciliabile conflitto fra loro. Ma, anche volendo concedere la validità dell’equazione tra verità e intolleranza, non si capisce come il professor Marzano possa sostenerla e poi portare ad esempio di intolleranza fondata sulla verità la pretesa, propria di Comunione e liberazione, di ricevere dallo Stato «risorse e libertà d’azione», in termini «di ingenti finanziamenti pubblici per la gestione di scuole private» (p. 11).
Non discuto se e fino a che punto quella di Cl si possa definire una «pretesa» e in che misura si possano definire «ingenti» i finanziamenti che i ciellini chiedono allo Stato, ma noto soltanto che l’accusa che Marzano muove a Cl contrasta quanto meno con quella tolleranza che egli stesso dice di voler difendere attraverso l’equazione verità-intolleranza: come si fa ad accusare i ciellini di intolleranza nel volere soldi pubblici per le loro scuole private, quando loro vogliono quei soldi proprio per far sì che tutte le famiglie abbiano la possibilità di scegliere liberamente la scuola nella quale mandare i propri figli, senza che lo Stato le obblighi a scegliere quella statale solo perché costa meno?
E come si fa ad accusare Scola (e il Progetto Culturale della Cei di Ruini) di credere che esista una libertà religiosa di serie A (quella che si relaziona con la verità) e una di serie B (quella che non vi si relaziona) e poi ritenere che esistono famiglie di serie A (quelle che vogliono mandare i figli alla scuola statale o quelle che possono permettersi di mandarli alla scuola non statale) e di serie B (quelle che non vogliono mandarli alla scuola statale e/o non possono permettersi quella non statale)?
Se, infine, nella visione di Scola si ritrova, secondo Marzano, «l’essenza del vecchio progetto politico cattolico di conquista della società liberale che accoglie la dimensione strumentale del liberalismo (economico e politico) ma cerca di neutralizzarne la filosofia dei diritti che, a partire da John Locke, attribuisce al giudizio individuale piena sovranità di scelta morale e religiosa» (p. 11), in che senso esercitare lockeanamente la libertà di scelta non deve significare anche avere la possibilità di scegliere liberamente l’educazione per i propri figli?
La risposta a questa domanda si trova nel saggio di Nadia Urbinati. Contestualmente a una valutazione positiva dell’emancipazione dello Stato dalla religione (avvenuta con l’Illuminismo), la professoressa della Columbia University ritiene, sulla scia di Charles Taylor, che oggi, nonostante la secolarizzazione, resta comunque una sorta di pluralismo religioso inevitabile che, lungi dall’aver neutralizzato il fattore religioso, obbliga lo Stato a dover tenere conto, in un’ottica di laicità positiva, della valenza pubblica (anche se non politica) delle religioni, come ha sostenuto l’ultimo John Rawls e oggi sostiene Jürgen Habermas.
Pur non rifiutando, come tale, il concetto di laicità positiva, la Urbinati perviene, tuttavia, a conclusioni che non fanno che rafforzare il ragionamento di Marzano: la «concezione postsecolare» del rapporto tra Stato e comunità religiose (secondo la quale il primo deve garantire uguali libertà pubbliche alle seconde) funzionerebbe solo in «una società che non ha una religione dominante, dove non ci sono omogeneità religiose di nessun tipo ma una sola omogeneità, quella democratica»; in società come quella italiana (caratterizzata dal prevalere di una confessione religiosa) condurrebbe, invece, «a un vero e proprio dominio della maggioranza» (p. 96).
Se applicata alla questione del crocefisso nelle aule scolastiche (come la stessa Urbinati fa nel suo saggio), questa concezione porta a sostenere che l’unico modo per salvaguardare il diritto di una minoranza religiosa che chiedesse di togliere il crocefisso da un’aula scolastica sia quello di violare il diritto della maggioranza a mantenerlo. La possibilità che la soluzione possa essere quella di non togliere il crocefisso e di consentire alle minoranze che ne facessero eventuale richiesta di esporre i propri simboli non viene nemmeno contemplata in nome dell’idea di partenza secondo la quale la laicità positiva, in Italia, non può funzionare, stante la condizione maggioritaria dei cattolici.
Mi chiedo a chi davvero gioverebbe, in Italia, il ritirarsi del cattolicesimo nella zona della coscienza individuale (che è la soluzione che Marzano auspica di fronte al rischio confessionalista paventato dalla Urbinati).
Certo non alla maggioranza religiosa cattolica (che verrebbe privata del diritto di manifestare pubblicamente ciò in cui crede) e nemmeno allo Stato: è ormai noto che in Italia un alunno della scuola non statale (in grande percentuale cattolica) costa allo Stato di gran lunga meno rispetto a quanto gli costa un alunno della scuola statale. Restano le minoranze: sì, forse il mutismo pubblico cattolico servirebbe alle minoranze, ma, a questo punto, per evitare la tirannia della maggioranza, non saremmo scivolati in quella della minoranza?
Siamo proprio sicuri che la richiesta da parte dello Stato ai cittadini di «non usare la sfera pubblica per attuare o sponsorizzare le loro private o parziali visioni del mondo» sia una richiesta «fin troppo blanda» (pp. 106-107)?