Con L’Ultima marcia del tenente Péguy Roberto Gabellini si cimenta in un’impresa insolita e ambiziosa, ma coronata da successo: riflettere, poeticamente, sul destino di Charles Péguy, morto un secolo fa proprio all’inizio della battaglia della Marna. La forma scelta è quella del poema: poesia narrativa, in forma di ballata, che associa l’elemento narrativo con quello meditativo e introspettivo, in un dialogo fra poeti, fra il contemporaneo e il passato. Gabellini, riminese, già autore per Raffaelli di La croce non basta (2010) e, per Mursia, di Pescatori d’Italia. Storie sul bordo del mare (2011), nonché curatore di adattamenti teatrali da Flannery O’Connor e autore in prima persona (Il cuoco del destino), con L’ultima marcia del tenente Péguy realizza uno scavo sul senso della vita e del dolore, che solo l’intervento della Grazia può riscattare.



Come ricorda A. Rivali nell’Invito alla lettura, Péguy, morto il 5 settembre 1914, fu tra i primi a venire risucchiato dal disastro della Grande Guerra, primo di una lista di illustri caduti, da Alain Fournier, da War Poets Rupert Brooke, Charles Hamilton Sorley, dallo scultore Henri Gaudier-Brezska, e tanti, troppi altri. La prima guerra mondiale è il gigantesco crogiolo verso cui l’Europa della Belle Époque, specialmente la Francia, corse a precipizio con sinistra frivolezza, in una generale euforia animata di nazionalismo e impreparazione. I francesi, in particolare, erano animati anche dal revanchismo per la terribile disfatta di Sédan del 1870, e ciechi e assordati dalle fanfare di guerra, si avviarono al massacro; come scrisse J. Keegan, “partirono in guerra nel 1914 abbigliati più o meno come nel 1870, e poco diversamente dai tempi di Napoleone” (da La prima guerra mondiale. Una storia politico-militare, 2000). Parlare di poesia è sempre fare i conti con la Vita e con la Morte: anche l’opera poetica più antica da noi posseduta, l’epopea di Gilgamesh, è in primis un braccio di ferro “con la signora vestita di Nulla”, per dirla con Gozzano.



L’opera di Gabellini è quindi davvero coraggiosa: non solo tenta l’avventura del poema, forma negletta nel frammentismo poetico italiano contemporaneo (mentre nel mondo anglosassone abbiamo capisaldi come l’Omeros di Derek Walcott), ma esprime una sete metafisica rilanciata in un continuo crescendo. L’inizio è ritmato, marziale, scattante: “Noi siamo la riserva della Francia, noi, / riserva di memoria / riserva della storia, / noi riserva di popolo e di Chiesa; / riserva d’obbedienza, d’onore, / riserva di anime da usare, noi / riserva d’altri tempi / (…) Scorta di sangue, scorta di gambe, / di braccia e di bende, di lacrime e d’orrore (p. 15). Ma questo singolare poema è anche “una ricognizione nella terra del mistero” (A. Rivali): ci pone di fronte a quell’interrogativo che ci coglie di fronte al baratro più profondo, la violenza della guerra, l’insensatezza apparente del dolore e del male. 



E con afflato che potremmo definire narrativo e insieme mistico, questo poema, scandito per tappe che rappresentano una sorta di “rivisitazione poetica dei trenta giorni di guerra del tenente Péguy” (secondo la bella definizione di P. Colognesi) la guerra, e la morte, sono non soltanto la fine materiale, ma l’acme di una vicenda umana e spirituale, in linea con la riflessione di Péguy stesso, che a lungo aveva meditato sulla misteriosa necessità della Grazia nelle nostre vite.

Così, quando, nel corso del celebre pellegrinaggio a Chartres del 1912, Fournier gli aveva comunicato la morte del giovane René Bichet, stroncato dal vizio della morfinomania, il poeta aveva scritto una supplica per il ragazzo indirizzata a Maria: “Veniamo a pregarvi per quel povero ragazzo / Che è morto come uno stupido quest’anno (…) O Vergine, non era il peggiore del gregge. / Non aveva che un difetto nella giovane corazza, (…) Regina, ricevetelo nel vostro perdono. / Dove è passata la morte passerà anche la grazia”.

Dove è passata la morte passerà anche la grazia: e proprio ispirata alla profonda pietas della massima quasi sapienziale di Péguy pare la conclusione di Gabellini: “Signor tenente, il tuo mondo è finito, / il suo tempo consumato, inutile / il suo onore, il suo sogno – il tuo -/ di un mondo senza guerre. (…) /… Tu, / cristiano senza sacramenti, irregolare, / l’adesso e l’ora della tua preghiera speciale, / di quelle parole che hai conservate, le uniche / che non hai lasciato cadere, / che ti serviranno ancora, / finalmente – ora – coincidono esatte. Il seme muore. / Nunc et in hora mortis nostrae”.

 

Roberto Gabellini, L’Ultima marcia del tenente Péguy, Edizioni Ares, 2014, 168 pp.