Pier Aldo Rovatti è intervenuto su Repubblica, qualche giorno fa, con un vibrante articolo nel decennale della morte del grande filosofo francese Jacques Derrida.

Il titolo dell’articolo, “Perché abbiamo scelto di dimenticare Derrida”, esprime un giudizio aspro sulle cause di un certo silenzio subentrato alla grande notorietà del filosofo francese.



Scegliere di dimenticare… Non è in questione una debolezza, un disorientamento: è in questione invece un voluto rifiuto. Si tratta di un rifiuto che dimentica, cioè che nega qualcosa che è stato presente, accolto, che ha in qualche modo agito. È perciò una dimenticanza che si annuncia come una diserzione, un tradimento.



Rovatti, allievo di Enzo Paci, direttore di Aut aut, filosofo italiano tra i più attivi e significativi nel panorama italiano, non ha mai avuto peli sulla lingua: in lui il rigore filosofico e il rigore etico si annodano e fanno come un tutt’uno. Detto altrimenti è un uomo che ha passione per la verità. 

Che cosa denuncia Rovatti con il suo intervento? Egli fa un’analisi delle cause del silenzio, fino alla censura nonostante gli omaggi di rito, che è scesa sulla produzione di Jacques Derrida. L'”oscurità” dei suoi testi è diventata l’alibi per difendere i nostri stereotipi. Così si esprime Rovatti nel suo articolo: “Quella del filosofo che gioca con le parole ed è difficile da leggere ha l’aria di una balla colossale, diffusa per evitarci la fatica di un pensiero critico che mette in discussione la nostra amata e presunta identità (o superiorità) di individui ormai pienamente razionali e illuminati … in ogni pagina Derrida insinua un dubbio insopportabile su questa presunzione”.



Derrida in effetti non è affrontabile come un filosofo che ci esponga una “visione del mondo” nel senso di una dottrina, di un discorso sul mondo. Il suo stile di pensiero consiste nel non essere separato da ciò che dice: egli non contempla ciò che dice come dal di fuori, ma piuttosto si coinvolge nel suo stesso discorso alla ricerca della sua origine, del luogo del suo continuo generarsi.

Derrida è stato un grande maestro nel leggere i testi dei grandi filosofi dell’Occidente, ma anche di testi non filosofici: egli ha concepito la testualità di un discorso come una sorta di casa in cui sono accolti sia l’autore sia il lettore. Detto altrimenti, per lui non è coglibile semplicemente ciò che il testo vuol dire, perché il suo “voler dire” è sottomesso costantemente al vaglio e al rischio di una interpretazione che è essa stessa parte del movimento della verità. Quella che Derrida frequenta non è una verità intellettualistica ed esangue, ma l’effetto costante di un rapporto generativo di un significato che arriva sempre dall’altro e che non è dominabile dalla mia misura. Ciò provoca disorientamento, comprensibile certo per l’impegno di rischio e anche di umiltà e di fiducia che esso comporta, nei confronti di una verità che viene incontro nella forma di un sapere non nostro.

Menti succubi di ideologie sia in campo laico sia in campo cattolico hanno interpretato tutto ciò come “nichilismo” scambiando il rifiuto di fondamenti rassicuranti e violenti per un pessimismo radicale sull’esistenza. Al contrario, quando nel lontano 1969, giovane assistente universitario, incontrai Derrida, fui affascinato proprio dalla indomita risorsa della sua domanda, di un domanda generativa della sua riposta secondo il rigore abissale di un metodo. Tale metodo ha avuto per lui maestri novecenteschi, in particolare Lévinas e Blanchot, ma affonda le sue radici in tradizioni costitutive dell’Occidente, come il pensiero ebraico e non solo ebraico, come quello cristiano, per quell’aspetto del pensiero cristiano che trasgredisce una sintassi e un ordine di un logos dominatore dei suoi significati e dei suoi legami. È piuttosto un’alterità inaudita che il grande filosofo francese insegue nel suo lavoro, alterità che lo fa commuovere per esempio, di fronte al “Vieni!” dell’Apocalisse giovannea, imprendibile gesto che genera ciò che tuttavia implora. D’altra parte il fascino di Sant’Agostino lo ha mosso a delle analisi intorno a un linguaggio che oltrepassa, pur generandoli, i suoi stessi bordi (paradigmatica è la formula, più volte citata da Derrida: “veritatem facientes in charitate).

C’è sempre il rischio di ridurre tali proposizioni a moralismo perbenistico. Tutto si può ridurre a moralismo: Cristo e, se si vuole, anche Lenin. Ma il cuore dell’uomo, e la filosofia in particolare di tanto in tanto rilancia, in alcuni suoi genii, i ponti di un discorso in cui la propria (?) verità è accolta come effetto piuttosto che intenzione e programma etico-politici. Questa è l’eredità di Derrida. 

Io stesso, avendo a suo tempo introdotto il pensiero di Derrida in Italia, nel lontano 1968, con le traduzioni di La voce e il fenomeno (Jaca Book, 1968) e di Della grammatologia (Jaca Book, 1969) e poi seguito questo maestro in un lungo percorso di studi e di realizzazioni editoriali, godendo anche della sua amicizia, confesso che tuttora mi trovo spesso spiazzato dalla lettura dei suoi testi, che mi conducono in luoghi e in percorsi sempre nuovi e da me non previsti. Credo che questo sia il segno di un grande maestro, e che il discepolo debba ogni volta appropriarsi, rifare lui i passaggi della verità che gli arriva dal suo magistero.

Nella società tecnocratica e dirigistica in cui viviamo, dove l’ideale del cittadino è di essere una obbediente ed efficiente rotella, che cosa ne sarebbe di educatori, insegnanti, professori, che pro-fessassero una fede (laica) nella verità? Una verità di sé, ma che può essere “posseduta”, incredibilmente, solo se restituita a questo stesso sé. Il percorso di questa incessante prassi di lettura di testi (un testo è una struttura di legami e di significati) è il percorso in cui il significato si costituisce come proveniente dall’altro, dal testo che è la nostra stessa vita, con il negativo e il dolore che la abitano.

La lezione di Derrida può perciò essere oggi, forse più che mai, raccolta e messa alla prova. Ma questo atto implica una profonda trasformazione della ragione. È in questione una ragione che non sia semplicemente una prassi di dominio e di controllo di idee e di legami, ma invece coinvolgimento ed esperienza di una trasformazione di sé.

Leggere Derrida, interessarsi al suo pensiero significa scegliere un percorso la cui struttura implica un rischio e una promessa. È vero che il suo testo non si dà, non si dischiude al primo venuto e neppure si dà a saccheggi e/o a facili ripetizioni. Qui sta la difficoltà a frequentare e comprendere questo autore e la causa delle resistenze nei suoi confronti.

Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, citate da Derrida, dice che la verità si annuncia non solo come ciò che illumina (veritas lucens), ma anche come verità che rimprovera (veritas redarguens).