L’opera più conosciuta di Hannah Arendt è probabilmente “Le origini del totalitarismo”, pubblicata bel 1951. L’autrice, tedesca di origini ebraiche (e poi naturalizzata statunitense) dedica gran parte della trattazione all’antisemitismo europeo, per poi effettuare un’approfondita disamina dell’imperialismo coloniale, per poi chiudere il cerchio e sviscerare la struttura della Russa Comunista. “Il dominio totalitario, al pari della tirannide, racchiude in sé i germi della propria distruzione”, recita uncelebre passaggio. “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”. E ancora: “I movimenti totalitari trovano un terreno fertile per il loro sviluppo dovunque ci sono delle masse che per una ragione o per l’altra si sentono spinte all’organizzazione politica, pur non essendo tenute unite da un interesse comune e mancando di una specifica coscienza classista, incline a proporsi obiettivi ben definiti, limitati e conseguibili”.



“L’attualità di Hannah Arendt, detto in un sol tratto, è quella di aver aperto la politologia a un fattore che è squisitamente legato alla vita cosciente dei singoli individui”. Lo ha detto il professor Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Bari “Aldo Moro”, contattato da IlSussidiario.net. “Il fatto cioè – ha aggiunto il professore – di aver posto fortemente l’attenzione sul grande peso che il pensiero ha rispetto anche alle vicende storiche e politiche del mondo. Intendendo il pensiero non come una facoltà astratta dell’uomo ma come quella che lei chiamava la vera ‘vita della mente’, la capacità cioè che ciascun uomo ha di cercare e di cogliere un significato adeguato per vivere e per agire”.



La vita e la produzione di Hanna Arendt fu fortemente influenzata dalla vicinanza con Martin Heidegger, suo professore di Filosofia all’Università di Marburgo. La Arendt ebbe una relazione sentimentale segreta con il massimo esponente dell’Esistenzialismo, le cui tesi rimasero ben impresse nella sua mente e penna. Quando scoprì la vicinanza di Heidegger con il Nazismo se ne dissociò e i due si separarono, ma  la donna non dimenticò mai l’amore per il suo primo maestro: una devozione e un sentimento che la condizioneranno sempre nella sua opera. Trasferitasi a Heidelberg – dove si laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant’Agostino sotto l’ala del filosofo psicologo Karl Jaspers – nel 1929 sposò il filosofo Günther Anders (da cui si separò nel 1937). Dalla Germania partì alla volta della Francia e di Parigi, dove conobbe il critico letterario marxista Walter Benjamin. Nel 1940 un nuovo matrimonio con il poeta e filosofo tedescoHeinrich Blücher, con cui emigrò negli Stati Uniti, con l’aiuto di un altro uomo, il giornalista americano Varian Fry. Al termine del Secondo conflitto mondiale, le strade di Hannah Arendt e Martin Heidegger si incrociarono nuovamente, testimoniando in suo favore in occasione di un processo in cui venne accusato di aver favorito il regime di Hitler.



Allieva di Heidegger a Marburg, di cui divenne l’amante, Arendt nel 1972 viene invitata a tenere le “Gifford Lectures” all’Università scozzese di Aberdeen. Due anni dopo, durante il secondo ciclo delle “Gifford”, viene colpita dal primo infarto. Quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, la Arendt si sente quasi obbligata a seguire lo storico processo, che si tiene a Gerusalemme. Così chiede e ottiene di essere inviata a Gerusalemme come reporter della rivista “New Yorker”. Da qui i suoi scritti, che divennero poi il libro “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” (1963), dove solleva la questione che il male possa non essere radicale, in cui spiega che proprio l’assenza di radici, di memoria, trasforma le persone in agenti del male. Prima, nel 1951, scrive “Le origini del totalitarismo”, in cui traccia le radici dello stalinismo e del nazismo, e la loro connessione con l’antisemitismo. La sua opera maggiore comunque ,che viene pubblicata nel 1958, è “Vita Activa. La condizione umana” in cui la filosofa intende recuperare la figura del politico nella dimensione umana, intendendo restituire “una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale”.

“Hannah Arendt” è un film di Margarethe von Trotta sulla vita della filosofa. In particolare la pellicola ricostruisce il periodo tra il 1960 e il 1964. La scena si apre con la cinquantenne intellettuale ebrea-tedesca, che è emigrata negli Stati Uniti nel 1940, e che vive felicemente con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blucher. La donna ha già pubblicato diversi testi e insegna in una prestigiosa Università. Nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, la Arendt decide di seguire lo storico processo e per questo motivo si fa inviare come reporter a Gerusalemme per la rivista “New Yorker”. Dai suoi racconti, diventati poi un libro, “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” (1963), la donna scrive che l’assenza di radici, di memoria, fanno si che nascano autentici agenti del male. La filosofa viene contestata e viene attaccata dalla stampa, la sua Università è contrariata da quegli scritti, ma viene sostenuta tuttavia dal marito e molti studenti che approvano il suo pensiero.

Oggi, 14 ottobre 2014, ricorrono i 108 anni dalla nascita di Hannah Arendt e Google dedica alla studiosa il suo doodle. Lo stile scelto per il logo ricorda quello delle foto di inizio novecento, color seppia. La Arendt è ritratta tra i libri: seduta a una scrivania con dei fogli in mano e una penna, anche se nella maggior parte delle foto la scrittrice tiene in mano una sigaretta. Capelli corti, look total black e collana di perle al collo: la scrittrice e filosofa è ritrattata in tutta la sua essenzialità. Una delle sue opere più importanti e famose è “La banalità del male”, un resoconto sul processo all’ufficiale nazista Adolf Eichmann: “Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”, scrisse la Arendt nel suo libro.

La filosofa dei diritti civili, Hannah Arendt, è stata una combattente contro il razzismo e ogni genere di discriminazione. Lei però rifiutava l’etichetta di filosofo e infatti lavorò anche a lungo nell’educazione come maestra di scuola superiore dedicandosi proprio al concetto di educazione. Lo si capisce leggendo sue frasi e aforismi di Hannah Arendt, come ad esempio “L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo”. Ma comunque Hannah Arendt esprimeva anche i suoi pareri sulla filosofia: “Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d’origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò”. Naturalmente data la natura di ebrea di Hannah Arendt, perseguitata si espresse a fondo contro ogni totalitarismo: “La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro “passato irrisolto” (die unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l’ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico”. E ancora Hannah Arendt scrive: “È nella natura della politica ideologica – e non un semplice tradimento commesso per interesse personale o smania di potere – che il vero contenuto dell’ideologia (la classe operaia o i popoli germanici), originariamente alla base dell’«idea» (la lotta di classe come legge della storia o la lotta delle razze come legge della natura), venga distrutto dalla logica con cui tale «idea» è attuata”.

Hannah Arendt nacque nel 1906 a Königsberg, città natale del suo illustre predecessore Emmanuele Kant, nella Prussia orientale, oggi enclave russa, e morì a New York nel 1975, vedova e senza figli. «Aveva il genio dell’amicizia» disse nella sua orazione funebre per Hannah l’amico Hans Jonas. Nel 1933 Hannah Arendt, quando aveva già scritto due opere importanti (Il concetto di amore in Agostino, 1929; Rahel Varnhagen, storia di una ebrea, pubblicato però solo nel 1959), viene arrestata e quindi fugge dalla Germania nazista per un esilio che la vedrà prima a Parigi e poi definitivamente negli Stati Uniti, dove, a partire dal1951, ottiene la cittadinanza e, nel breve volgere di pochi anni, dopo la pubblicazione del suo The Origin of Totalitarianism (New York, 1951) fama e celebrità. Oltre all’insegnamento nell’ateneo di Chicago la Arendt colleziona una dozzina di lauree ad honorem, tiene conferenze nelle maggiori università americane, scrive su riviste scientifiche, periodici e quotidiani, è cooptata in prestigiose istituzioni e fondazioni culturali, consegue premi e onorificenze non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Germania (34 anni dopo aver lasciato la sua madrepatria vince il prestigioso premio Sigmund Freud della Deutsche Akademie «per eccellenza nella prosa tedesca»). Hannah Arendt proveniva dagli ambienti della più rinomata cultura europea, da quella Germania degli anni Venti-Trenta in cui aveva frequentato le migliori università, avuto per maestri Heidegger, Jaspers, Guardini e come interlocutori pensatori della statura di Leo Strauss, Scholem, Tillich, Raymond Aron, Sartre, Maritain. Ma nonostante il successo conseguito Oltreoceano (ebbe un ruolo perfino nell’amministrazione americana al tempo di John Kennedy) Hannah Arendt resterà un esempio di modestia e discrezione. Tra gli anni Cinquanta-Sessanta scrive le sue opere più conosciute e discusse (Le origini del totalitarismo, Tra passato e futuro, Vita Activa, La vita della mente, Sulla rivoluzione) e quando gli israeliani rapiscono in Argentina il gerarca nazista Eichmann e lo conducono in giudizio a Gerusalemme, a partire dal 1961 la Arendt segue il processo come inviato del The New Yorker e scrive una serie di articoli che verranno poi rivisti e raccolti in La Banalità del male, volume il cui solo titolo scatenò violentissime polemiche internazionali. In Italia il nome di Hannah Arendt è pressoché sconosciuto e – fatta probabilmente eccezione degli ambienti della comunità ebraica cui la Arendt apparteneva – nemmeno ha mai goduto di «quel dono raro e dei meno ambiti, la fama postuma» che, ricorda Hannah, arrise in Germania a suo cugino Walter Benjamin.