«Un mondo in così rapida trasformazione chiede ai cristiani di essere disponibili a cercare forme o modi per comunicare con un linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo». Queste parole di papa Francesco descrivono l’atteggiamento dell’allora arcivescovo Montini appena giunto nella diocesi di Milano: una profonda attenzione alla situazione dell’uomo, consapevole che «l’uomo moderno va perdendo il senso religioso» e che «occorre una riabilitazione razionale del senso religioso» (1957) perché la fede sia una risposta pertinente alle esigenze della vita. Negli stessi anni don Giussani aveva percepito nei giovani liceali questo smarrimento di una religiosità autentica e scrisse per questo, sulla scia di Montini, Il senso religioso (1957), per mostrare la ragionevolezza della fede di fronte alle sfide della cultura laicista dell’epoca.



Nella sua prima enciclica, l’Ecclesiam Suam (1964), Paolo VI descriverà come realizzare questo compito: «la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé», può «ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. (…) Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede». Provocato da queste parole, don Giussani scriverà pochi mesi dopo che «il dialogo implica un’apertura verso l’altro, ma implica anche una maturità di me, una coscienza critica di quello che sono».



Di Paolo VI don Giussani condivideva la percezione della sfida che rappresentava per la Chiesa la situazione dell’uomo contemporaneo, in «un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione», quindi del punto da cui ripartire. Durante quella che Benedetto XVI definisce una «cesura storica», il Sessantotto, comune fu la risposta. Don Giussani amava ripetere una frase del Papa che, di fronte a questo crollo, rispondeva con l’umile certezza di una Presenza sorgente di umanità vera e di speranza: «Dov’è il “Popolo di Dio”, del quale tanto si è parlato, e tuttora si parla, dov’è questa “entità etnica sui generis”? Come è compaginato? Com’è caratterizzato? Com’è organizzato? Come esercita la sua missione ideale e tonificante nella società nella quale è immerso? Bene sappiamo che il popolo di Dio ha ora, storicamente, un nome a tutti più familiare; è la Chiesa» (1975). 

E nella Evangelii Nuntiandi (1975) ribadisce il metodo della missione come l’unico adeguato a rispondere alle domande dell’uomo: «Buona Novella deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza» dei cristiani, che «fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo?». Stupisce la sintonia con papa Francesco: «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione».

Don Giussani ha sempre ricordato con gratitudine la lealtà umana e la guida illuminata, prima dell’arcivescovo Montini e poi di Paolo VI, di fronte al bene che vedeva accadere nella Chiesa, per esempio permettendo l’inizio del suo tentativo educativo tra i giovani di Milano e poi accompagnando lo sviluppo del movimento, fino alle parole che Paolo VI gli disse in piazza San Pietro il 23 marzo 1975: «Coraggio, questa è la strada», invitandolo a proseguire, come aveva già fatto a metà degli anni Cinquanta.

Per tutto questo, come non sentire tutta la gratitudine verso la nostra Madre Chiesa che riconosce la grandezza della testimonianza di Paolo VI a Cristo, l’Unico che si prende a cuore tutto della nostra umanità?