Il 24 ottobre 1964 con il Breve Pacis Nuntius Paolo VI proclamava San Benedetto patrono d’Europa, il santo che «si adoperò perché su questo nostro continente sorgesse l’alba di un nuovo giorno. Con la croce, il libro e l’aratro, egli e i suoi figli trasmisero la civiltà cristiana alle varie popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia». Fu così che «egli cementò l’unità dell’Europa». «Popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire l’unico popolo di Dio». Unità che è «esemplare e tipo di bellezza assoluta».
Mi pare una circostanza singolare che a pochi giorni dal cinquantesimo anniversario della proclamazione di Benedetto da Norcia a patrono d’Europa, Paolo VI venga beatificato. Fra queste due figure c’è infatti un legame profondo che ha molto a che vedere con la nostra storia presente. In quei giorni di cinquant’anni, fa recandosi in visita a Monte Cassino, papa Montini osservava come all’uomo «manca soprattutto se stesso». Quel se stesso o quell’io che oggi, nell’epoca esasperata dei selfie, sembra spesso sfuggire e assumere contorni evanescenti nel bombardamento di informazioni, notizie, connessioni. «San Benedetto — continuava Paolo VI — ritorni per aiutarci a ricuperare la vita personale; quella vita personale di cui oggi abbiamo brama ed affanno, e che lo sviluppo della vita moderna, a cui si deve il desiderio esasperato dell’essere noi stessi, soffoca mentre lo risveglia, delude mentre lo fa cosciente».
Proprio questa urgenza di far riemergere il «cuore» della persona ha sempre accompagnato Montini già prima di essere eletto al soglio di Pietro. Nel 1957, da neppure tre anni arcivescovo a Milano, dedica una delle sue prime lettere pastorali al tema del senso religioso. Una scelta inconsueta in un clima ecclesiale dominato per lo più da preoccupazioni di carattere morale. Montini nota invece che «l’uomo moderno va perdendo il senso religioso». Senza questo che ne è la «base soggettiva» «la religione rimane esteriore, formalista, inoperosa e fragile — pericolo di ieri e di sempre — ovvero essa cade addirittura — pericolo di oggi».
Il futuro Paolo VI era consapevole che una fede che non coinvolgesse la dimensione religiosa (quella nella quale l’uomo si interroga sul suo destino) finirebbe col diventare un’obbedienza passiva, che si trascina per consuetudine ma che non ha futuro nel confronto con le posizioni ideologiche allora dominanti come il laicismo borghese e l’ateismo marxista, ma lo stesso potremmo dire oggi del positivismo scientista e del nichilismo. Coglie il rischio di una deriva conformista. Dirà in pieno Sessantotto: «Voi, giovani d’oggi, siete talora ammaliati da un conformismo, che può diventare abituale, un conformismo che piega inconsciamente la vostra libertà al dominio automatico di correnti esterne di pensiero, di opinione, di sentimento, di azione, di moda: e poi, così presi da un gregarismo che vi dà l’impressione d’essere forti, diventate qualche volta ribelli in gruppo, in massa, senza spesso sapere perché».
In tale contesto il senso religioso per Montini è il punto di riscatto, è «sintesi dello spirito» che «ricevendo la parola divina, impegna con la mente anche le altre facoltà, e dona un prezioso apporto, quella rispondenza cioè che noi chiamiamo il cuore facendo sì che la parola divina non sia ricevuta solo passivamente, ma in modo invece da ricavarne un caldo atto di vita».
Il compito allora diventa «la restaurazione del senso religioso» che implica anzitutto una sua «riabilitazione razionale» per sfuggire a ogni sua riduzione a sentimento.
Centrale in questo senso diventa la questione dell’educazione. Tema attualissimo che un giovanissimo Giovanni Battista Montini in uno dei suoi primi scritti sintetizzava così: «Non domandiamo altro che un po’ di libertà per educare come vogliamo quella gioventù che viene al cristianesimo attratta dalla bellezza della sua fede e delle sue tradizioni». Allora come oggi una questione di libertà e di attrazione.