Che cosa significhi capire una poesia è questione con cui tutti, o quasi, ci siamo una volta o l’altra confrontati, sui banchi di scuola o come semplici lettori, alla ricerca di un atteggiamento adeguato di fronte a oggetti — le poesie, appunto — che si dicono “da maneggiare con cura”. “Capire una poesia — argomentava già T.S. Eliot nel 1956 — vuol dire gustarla pienamente per la ragione giusta”. Ed era subito così richiamato il valore formativo di un’operazione complessa, in cui interagiscono competenze tecniche e applicazioni di ordine esperienziale. Perché, aggiungeva Eliot, “capire una poesia travisandola significa compiacersi di una mera interpretazione della propria mente”, e, d’altro canto, “è ugualmente vero che non possiamo capirla fino in fondo se non la gustiamo”.
Le poesie infatti, come le persone, possono essere osservate da punti di vista differenti. Ci si può chiedere come sono, da dove vengono, oppure dove vanno. Quando, come e perché sono state scritte, in quale situazione storica, culturale, psicologica…, allo scopo di rinvenirne i molteplici ingredienti e fattori. Questa è la spiegazione storico-causale, che a lungo ha prevalso nella scuola e all’università. Con il benefico risultato di limitare, tra gli studenti, ogni deriva grettamente impressionistica. Ma a quale prezzo?
“Quando nasce una poesia — scriveva ancora Eliot — è accaduta una cosa nuova, che non può essere interamente spiegata da qualsivoglia cosa avvenuta prima”. Capire, dunque, significa prendere in custodia il mistero di questo accadimento, sempre presente, in cui una voce assume forma e ci si affida. Interpellando la nostra ragione. Scuotendo la nostra sensibilità, a patto che il testo, dissolto nel suo contesto, non venga devitalizzato, ridotto allo scheletro di una lettera morta.
Vittorio Sereni, uno dei più grandi poeti del Novecento italiano, ha lasciato al riguardo straordinarie testimonianze, proprio a partire dalla sua esperienza di lettore, e specialmente in rapporto all’autore forse da lui più intensamente amato, Eugenio Montale. Si prenda questo brano del 1966: “Montale con i suoi primi versi precorreva in noi la presa di coscienza del mondo circostante e dei suoi stessi lineamenti fisici: nella misura in cui ci avvertiva che lo spazio immediatamente a noi vicino e nel quale stavamo già muovendoci con la nostra esistenza non solo poteva essere ma già era abitato dalla poesia. Ci avvertiva al punto di determinare i nostri passi e il nostro stesso sguardo? È probabile che sia stato così”. Sono qui distillati, limpidamente, alcune passaggi fondamentali: capire una poesia significa entrare in dialogo con essa fino al punto di lasciare che la sua voce orienti e guidi la nostra lettura della realtà, dimostrandocene, in primo luogo, la poeticità, la sua bellezza e verità, e, quindi, evidenziando la possibilità, dentro a ciò, di un cammino.
Sulle pagine del settimanale Epoca, nel novembre del 1975 Sereni tornava ad affermare: “Montale — il fenomeno sembra oggi irripetibile — ci aveva accostati alle sue poesie come a persone: quasi che ogni sua poesia fosse una persona viva. Questo è il vero debito (extraletterario, occorre dirlo?) che abbiamo nei suoi confronti: di averci, in tanto dubbio suo sulla vita, appassionati in gioventù alla vita”. Una poesia, come una persona, diviene nel tempo e nella storia, e dunque non potrà mai essere “decifrata” fino in fondo, chiarita definitivamente come un rebus. Quel che conta è l’incontro con essa, come fosse — perché è — una persona viva, di cui misuriamo il fascino tanto quanto ne sappiamo riconoscere i lineamenti più veri, l’unicità irripetibile. Ed è questo che appassiona alla vita, qualsivoglia sia il tema specifico di un testo: la scoperta della possibilità di riformulare l’esistenza in una parola, che, cristallizzatala, ne restituisca l’intensità e l’eccezionalità rendendole oggettive e, insieme, trasparenti. Ancora nel 1981, sulle colonne del Corriere della Sera, Sereni aveva cura di ribadire: “Fin dentro gli anni della guerra la poesia di Montale ci aveva offerto la chiave più naturale per noi, non dirò per leggere l’universo, ma per affacciarsi sull’esistenza che era nostra, e viverla, in certi casi inventarla. Era come se Montale ci avesse tolto la parola di bocca ogni volta che stavamo per pronunciarla”.
All’inizio di un nuovo anno di scuola si potrebbe tradurre la dichiarazione di Sereni in auspicio: come invito, o appello, per gli insegnanti, a lasciarsi togliere di bocca la parola dai poeti. Che chiedono di essere spiegati quel tanto che basta perché essi afferrino la nostra immaginazione e, investendola, ci forniscano una chiave, nuova e naturale, per essere qui e ora.