«Nelle masse cattoliche vi è stato uno spostamento evidente a sinistra al tempo di papa Giovanni. Ora vi è, al centro, un riflusso a destra. Permangono però, alla base, le condizioni e la spinta per uno spostamento a sinistra, che noi dobbiamo comprendere e aiutare. A questo scopo non ci serve a niente la vecchia propaganda ateistica. Lo stesso problema della coscienza religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla, deve essere posto in modo diverso che nel passato, se vogliamo avere accesso alle masse cattoliche ed essere compresi da loro. Se no avviene che la nostra “mano tesa” ai cattolici viene intesa come un puro espediente e quasi come una ipocrisia.»



Con queste parole il leader storico del Pci Palmiro Togliatti (1893-1964) nell’ultimo suo scritto — noto come “Memoriale di Yalta” — fotografa lo stato del cattolicesimo italiano negli anni del Concilio Vaticano II. Dai giudizi del segretario comunista emerge in primo luogo un ripensamento critico dell’atteggiamento del Partito nei confronti dei cattolici, ripensamento che in gran parte è frutto proprio dell’evento conciliare di cui l’intelligencija comunista — dopo un’accoglienza tiepida e carica di scetticismo — ha intuito progressivamente il potenziale di rinnovamento, lungo tutto il corso del pur breve pontificato giovanneo. Allo stesso tempo l’analisi svolta dal “compagno Ercoli” risulta appesantita da una serie di categorie — su tutte quella di “masse cattoliche” — che alla metà degli anni Sessanta, nel pieno della turbolenta modernizzazione dei costumi e della società italiana, appaiono ormai superate dalla realtà.



Proprio la lettura delle vicende del mondo cattolico italiano dal secondo dopoguerra al Concilio offerta dal Partito comunista e dalle sue strutture, sia centrali sia periferiche, è al centro del volume di Lorenzo Ettorre Il Pci e il Concilio Vaticano II, recentemente pubblicato per i tipi di Studium. Un primo dato che risalta da questo lavoro, che ha potuto avvalersi della documentazione conservata negli archivi del Partito (oltre che di un’ampia bibliografia), è indubbiamente la rigidità concettuale con cui il Partito inquadra la “questione cattolica” almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, rilevando all’interno della Chiesa una contrapposizione tanto netta quanto astratta tra il “clero”, per sua natura conservatore e reazionario, e la “massa”, il cui potenziale rivoluzionario sembra perennemente in attesa di essere rivelato a sé stesso. Per altro verso il rapporto con la Chiesa viene quasi sempre ridotto dai vertici del Pci alla dialettica politica con la Democrazia cristiana, considerata essenziale per garantire al più importante partito comunista dell’Occidente uno spazio nell’arco costituzionale italiano. 



L’irriducibile distanza ideologica tra i due mondi non impedisce che il Partito sviluppi nel corso del tempo una singolare attitudine mimetica nei confronti della Chiesa, intendendo sempre più porsi nei confronti dei suoi aderenti come una “religione laica” a tutti gli effetti: in questo orizzonte, per citare un esempio particolarmente significativo, il momento del tesseramento riveste un’importanza centrale nella vita del militante, finendo per rappresentare una sorta di equivalente comunista del battesimo cattolico e, nello stesso tempo, una preziosa occasione offerta a tutti gli iscritti di rinnovare la propria “professione di fede” nel partito. Leggendo più in profondità questi fenomeni si può anche cogliere — come fa l’autore sulla scorta di un’interpretazione consolidata — nel «carattere onnicomprensivo e totalizzante delle ideologie proposte dal comunismo e dalla Chiesa» un elemento di continuità con la fase storica precedente, segnata dalla “religione politica” fascista. Ettorre allo stesso tempo sottolinea che «se costante è il tentativo del Pci di imitare la struttura della Chiesa nonché la sua riconosciuta capacità di rafforzare e approfondire la convinzione dei propri aderenti, il risultato diviene spesso una rincorsa concitata di una realtà verso la quale ci si trova costantemente in ritardo».

Di questo ritardo offre più di un saggio la pubblicistica comunista, chiamata a fare i conti nel 1959 con il sorprendente annuncio della convocazione di un nuovo Concilio. Le prime reazioni, ben evidenziate nel secondo capitolo del volume, esprimono nel complesso un certo scetticismo e, in alcuni casi, la volontà di individuare il reale (e inevitabilmente politico) obiettivo dell’iniziativa del pontefice. Accade così, ad esempio, che le spinte ecumeniche che animano i lavori preparatori del Concilio vengano interpretate da alcuni commentatori come l’ennesima prova della volontà vaticana di «rinsaldare e rafforzare il blocco occidentale contro quello socialista». Col passare del tempo, tuttavia, il giudizio dei quadri del Partito su Giovanni XXIII — e, di conseguenza, sull’imminente Concilio — è destinato a cambiare. La ricerca paziente di un dialogo con il mondo sovietico da parte di papa Roncalli, la sua insistenza sulla necessità di un aggiornamento della Chiesa, il suo impegno per la pace sono fattori che spingono la dirigenza comunista a intravvedere nel magistero del papa e nel Concilio i segni della fine dell'”età costantiniana”, intesa come la colpevole autoidentificazione della Chiesa con l’Occidente capitalistico, e dunque la possibilità per le “masse cattoliche” di entrare finalmente in dialogo con le forze socialiste nella prospettiva di un comune impegno per la trasformazione delle strutture socio-economiche del Paese.

Lo studio di Ettorre sottolinea a più riprese come le aspettative di cambiamento suscitate dall’evento conciliare contribuiscano a un’oggettiva maggiore valorizzazione del fattore religioso da parte dei dirigenti comunisti, che su questo talvolta si scontrano con le sensibilità più radicali presenti nella base del Partito (a tale riguardo occorre evidenziare come la dialettica tra il “centro” e la “periferia” del Pci — ricostruita a partire dalle carte d’archivio — sia uno degli aspetti più interessanti del volume). 

La prospettiva, d’altra parte, rimane sempre essenzialmente politica. In un momento in cui la collaborazione di governo avviata tra democristiani e socialisti — appoggiata anche dagli Stati Uniti — fa intravedere il rischio di un isolamento definitivo del Partito, il Concilio diventa per Togliatti un possibile grimaldello per scardinare l’esperimento del centrosinistra e aprire la strada a nuovi equilibri politici. Qui sta il senso della formula «dal partito dei cattolici al cattolicesimo» scelta come sottotitolo del volume, che l’autore commenta nei seguenti termini: «Il Concilio, sprigionando le forze religiose vive del mondo cattolico, potrebbe rappresentare uno strumento — inaspettato ma efficace — al servizio del disegno politico comunista, sintetizzabile in un superamento di fatto del centro sinistra, mal visto anche dalla gerarchia, e nella costruzione di un blocco democratico-popolare avente come fulcro proprio il Pci: in tal modo si sarebbe evitato il rischio di un suo isolamento. Confrontarsi col cattolicesimo per riuscire a ridimensionare il partito dei cattolici: questo sembra essere il cuore dell’attenzione comunista al Vaticano II».

Se da una parte lo sforzo di interloquire con le “forze vive” del cattolicesimo italiano consente al Pci di superare certe rigidità del passato, dall’altra parte la chiave di lettura politica adottata dal Partito produce una visione del Concilio eccessivamente schematica, che sembra emergere a più riprese dalle cronache comuniste citate da Ettorre. In esse lo svolgersi dei lavori dell’assise conciliare — soprattutto dopo l’avvento al soglio pontificio di Paolo VI — si riduce il più delle volte allo scontro tra conservatori e progressisti: in quest’ottica, per ogni tema discusso dai padri conciliari (compresa la morale familiare nei suoi vari ambiti) si cerca di mettere in evidenza il tentativo di una parte della Chiesa di affermare il proprio disegno “costantiniano” sulla società, con le relative conseguenze sugli equilibri politici interni e internazionali.

Alla conclusione dei lavori conciliari, rileva l’autore, i giudizi dei dirigenti del Partito — più attenti allo “spirito” che alla “lettera” del Concilio e complessivamente più positivi — divergeranno da quelli più critici formulati dalla stampa comunista. La valorizzazione (comunque non scontata) del Concilio, ritenuto un oggettivo passo in avanti nella vita della compagine ecclesiale, si unirà all’auspicio che le intuizioni di Giovanni XXIII possano dispiegare a pieno il loro potenziale “rivoluzionario” nel concreto divenire storico. Sotto questo profilo il volume di Lorenzo Ettorre, mentre offre al lettore uno squarcio interessante e a tratti inedito sulle vicende del Pci dal dopoguerra agli anni del “boom” economico, rappresenta anche un utile spunto per continuare a riflettere su un evento la cui interpretazione, ancora oggi, rappresenta una sfida tanto per i cattolici quanto per i non credenti.


Lorenzo Ettorre, “Il Pci e il Concilio Vaticano II. Dal partito dei cattolici al cattolicesimo”, Studium, Roma, 2014.