L’ideale dei legami solidali tra gli individui, il sogno di un’armonia capace di rispecchiarsi nelle regole supreme delle relazioni sociali hanno sempre avuto un rilievo centrale nel sistema di valori che orientano il nostro comportamento. Si è sempre creduto di più, nei fatti, all’intuizione dell’uomo “animale politico”, come già l’aveva dipinto Aristotele, che non all’uomo “lupo per gli altri uomini” dello scetticismo tardomoderno.



Anche i libri sacri della religione di matrice ebraica, per parte loro, avevano visto giusto: l’innocenza originaria dei progenitori ancora immuni dalla colpa era la prefigurazione di una unità che, nell’ordine dell’essere, viene prima delle differenze e delle divisioni che la lacerano. Nella tradizione etica passata al “nuovo patto” della fede cristiana, questa morale fondata sulla natura profonda dell’identità socievole umana ha assunto come emblema il nome glorioso della “carità”. Per capire cosa si intendeva racchiudere sotto il mantello del suo primato indiscusso, basta partire dai simboli di cui lo si rivestiva per renderlo attraente, capace di incidere sulle coscienze delle persone, di diventare un modello in cui immedesimarsi e su cui costruire la propria esistenza. 



Ce lo rivelano i grandi repertori del sapere che erano la sintesi enciclopedica della cultura condivisa. Dizionari, summae e manuali di ogni genere ricapitolavano nei loro schemi il meglio della sapienza umanistica e filosofica degli antichi, intrecciata con il patrimonio multiforme della visione del mondo biblico-cristiana. Così facendo, l’intera traiettoria dello sforzo umano di aprirsi alla totalità di dimensioni del conoscibile, e prima ancora del dicibile, era messa alla portata di ogni nuovo fruitore, ordinata scrupolosamente per voci alfabetiche, strutturata secondo griglie di loci che erano i punti nodali di ogni discorso e di ogni immaginazione possibile, in modo che chiunque, salendo come un umile nano sulle spalle della gigantesca autorità dei traghettatori di una “scienza” ancora unitaria e onnicomprensiva, potesse appropriarsi con la massima facilità delle chiavi per mettersi alla scuola della lezione del passato, e da qui ripartire per ricombinare nuove trame di parole, nuove immagini ideali e nuove rappresentazioni della realtà divino-umana del mondo.



Nell’Europa del tardo Rinascimento e dell’età barocca, uno dei più fortunati prontuari valorizzati come serbatoi a cui poeti, artisti, letterati, predicatori, insegnanti, esperti di retorica e di comunicazione, attivi nei diversi ambiti che abbracciavano la chiesa, la corte, la città, il foro e il mercato, potevano attingere per saccheggiare modi di dire, formule, idee, racconti esemplari, simboli visivi, citazioni dotte, brani di oratoria preconfezionata, cioè per prelevare spunti e materiali poi immediatamente riutilizzabili per riciclo divenne presto l’Iconologia di Cesare Ripa: una densissima raccolta di icone visive, descritte in parole e spiegate nei loro fondamenti concettuali, continuamente ristampato poi con l’aggiunta di incisioni che traducevano in evidenza figurata i suggerimenti pratici forniti da una poliedrica tradizione del pensare in chiave allegorica, servendosi di segni e allusioni che veicolavano un messaggio potenziato dalla forza emotiva dei suoi codici ingegnosamente mobilitanti.

Procedendo di lettera in lettera, nel vademecum di Ripa si arriva a un certo punto alla voce “Charità”. I termini in cui la si disegna, mettendosi nel solco di una secolare pedagogia delle virtù cristiane piegate al servizio della realizzazione dei fini più alti dell’uomo, sono di una evidenza lapidaria: “Donna vestita di rosso, che in cima del capo habbia una fiamma di fuoco ardente; terrà nel braccio destro un fanciullo, al quale dia il latte, et due altri gli staranno scherzando a piedi; uno d’essi terrà alla detta figura abbracciata la sinistra mano. La fiamma di fuoco per la vivacità sua c’insegna che la carità non mai rimane d’operare secondo il solito suo amando; ancora per la carità volle che s’interpretasse il fuoco Christo Nostro Signore in quelle parole: Ignem veni mittere in terram, et quid volo, nisi ut ardeat?“.

L’immagine “parlante'” tratteggiata per restituire l’essenza del dinamismo della carità non ha nulla di eccentricamente originale. La sua genialità, infatti, sta solo nel farsi eco fedele di una concezione dell’amore umano che lo identificava con la fisiologia della dedizione materna. La “charitas” vista come madre che non può mai cessare di accogliere e nutrire i suoi figli non era niente di meno che il ricalco moderno del nucleo di simboli che già il Vecchio Testamento della religione ebraica collegava al topos fondamentale delle “viscere di misericordia”, intraviste come culmine espressivo della cura con cui il Mistero che dà respiro a ogni cosa accompagnava i passi fin del più gracile essere vivente. L’unico Dio geloso del monoteismo semitico era a sua volta una madre che genera e, donandosi, sostiene i suoi figli. Affidarsi alla sua tenerezza esigente, era come l’abbandono fiducioso del figlio che si lascia stringere al seno fecondo da cui sgorga la fonte di ogni energia di esistenza. Anche Gerusalemme, la città santa a cui risalire per riunirsi nell’unità del popolo eletto, era per i profeti la madre a cui aggrapparsi per attingere alla sorgente della salvezza. La si paragonava a un grembo con cui riannodare una simbiosi. Si invitava a ricercarne l’ombra protettiva come bambini protesi a farsi allattare per ricevere quanto è essenziale per restare in vita e per crescere. Nulla era più consolante dell’abbraccio primordiale in cui fondersi, ritornando all’origine.

Questa tradizione allegorica in chiave femminile è passata senza soluzioni di continuità nella visione etica del cristianesimo. La carità è stata posta in cima alla triade delle virtù pensate come irradiamento della natura stessa di Dio, rese imitabili dal basso per restare legati al compimento del proprio destino: la carità incoronata dalle sue sorelle della fede e della speranza. La comunione del nuovo popolo santo dei credenti in Cristo si è sostituita all’abbraccio materno di Sion. L’eros del Cantico dei cantici, spiritualizzandosi, è diventato figura dell’amore che lega la Chiesa, e in essa ogni suo fedele, allo Sposo disceso dall’alto per restituire al mondo la vita vera. 

Cristo stesso, donando il suo corpo e il suo sangue per la salvezza di ogni uomo, piegandosi a sollevarlo dal suo niente, ha finito con l’identificarsi nello slancio della madre disposta a sacrificare tutta sé stessa diventando una cosa sola con i nuovi nati che da lei sono stati plasmati.

Per loro Cristo è arrivato a svenarsi sul patibolo della croce. E non è certo un caso che, nella mistica di ogni tempo, il sangue zampillante dal costato ferito guadagni la natura di flusso miracoloso che nutre e dispensa la vita, in tutto simile al latte materno trasfuso nel corpo dei piccoli attaccati alle mammelle come nuovi germogli spalancati alla luce del mondo. Uguali simbologie si applicavano, nel loro più materiale registro biologico, alla Madre di Cristo: lo sapeva bene l’inventore dell’Ave maris stella, quando, già ben prima di san Bernardo, si rivolgeva alla Vergine supplicandola di “mostrarsi come madre”. Ma ce lo ricorda con tranquilla, innocente sicurezza il formulario delle preghiere d’uso ancora più popolarmente quotidiano, quando celebrano la grandezza di Maria “madre di misericordia” e da lei invocano la grazia di essere rimessi davanti allo sguardo consolatore di Gesù, il “frutto benedetto del (suo) seno”.

Come è facile intuire, l’esaltazione del primato della carità non è nemmeno rimasta confinata nel regno dei discorsi fatti di parole scritte o pronunciate. Le parole d’ordine della pedagogia morale cristiana sono state fin dagli inizi riversati nel linguaggio di conferma delle immagini persuasive. La carità-madre è diventata icona di sé stessa, materializzandosi nel suo riscontro umano più immediatamente autoevidente, come appunto prescriveva Cesare Ripa. Ma già molto prima di lui, rappresentazioni figurative e immagini plastiche della corona delle virtù avevano adottato come registro obbligato quello di mettere in scena la figura commovente della madre attorniata di figli, intenta all’allattamento generoso dei frutti della sua stessa carne.

Un esempio suggestivo lo si ammira nelle sculture della stupenda arca di san Pietro Martire, in S. Eustorgio di Milano (prima metà del ‘300). L’iconografia dell’immagine della carità ha continuato per secoli a rielaborare senza tregua questo canone fisso fondato su antiche radici. L’immagine materna campeggia negli stemmi di ospedali, confraternite ed enti assistenziali impegnati in ogni luogo sul fronte delicatissimo delle attività benefiche. Compare sullo sfondo dei cicli dedicati alla raffigurazione delle opere di misericordia, come nella serie delle toccanti tele genovesi di Cornelis de Wael. Spostata sul versante contiguo della cosiddetta “Carità romana”, a ricordo del sollievo recato a un vecchio incarcerato condannato a morire di stenti, salvato dalla figlia che si recava ogni giorno a fargli visita e di nascosto lo nutriva offrendogli devotamente il seno, l’esaltazione dell’amore senza riserve ritorna in una galleria impressionante di dipinti cinque-seicenteschi.

Caravaggio se ne è appropriato immortalandola in un memorabile dettaglio delle sue Sette opere di misericordia corporale del Pio Monte della Misericordia di Napoli (1606).

Ancora alla metà del secolo successivo, mentre cominciava a montare la tempesta dei Lumi, un pittore di origine napoletana, Francesco de Mura, dipingeva una dolcissima Allegoria della carità, probabilmente a Torino, su commissione della casata dei Savoia (1743 ca.). Il motivo centrale restava sempre quello dell’amore visceralmente materno: vediamo di nuovo all’opera una madre premurosa, vestita di rosso, che con una mano porge il proprio seno a un bimbo nella culla, mentre con il braccio libero accudisce ad altre creature, una sdraiata a dormire beatamente, quella di poco più grande che l’assedia avida di attenzioni. In disparte, un pellicano si tortura il petto sanguinante per sfamare i piccoli asserragliati ai suoi piedi. Si raddoppiavano così, per accumulo, i rimandi simbolici, chiamando in causa un’altra prestigiosa icona materna. Dalle origini della storia cristiana, anch’essa si era prestata a rievocare la logica del sacrificio che porta a consegnare in dono la vita per amore gratuito. Valeva per incitare alla pratica della carità, nello stesso momento in cui si applicava al modello per eccellenza di ogni carità in azione: quello di Cristo che si fa cibo per l’uomo da redimere, riattualizzando nel mistero eucaristico il prodigio di una pietà resa eterna lungo la corsa senza fine del tempo.