La caduta del Muro? “Il muro di Berlino non è mai caduto, è stato distrutto dal popolo. Dire che è caduto è una piccola bugia, che non è innocente perché nasconde la sconfitta del comunismo. E’ stato distrutto da chi voleva la libertà”. Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica Tedesca, rievoca la fine della Germania comunista.
Lei ha scritto un libro, Memorie di uno stato fantasma. Perché chiama così la ex DDR?
E’ una considerazione di ordine storico-politico. La Germania orientale era un paese comunista come lo erano la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, l’Ungheria. Il comunismo era come una vernice che copriva tutti questi paesi, o se vogliamo un grande lenzuolo dietro il quale si nascondevano i veri paesi, la loro gente, le loro storie. Nel caso della DDR invece, sotto al lenzuolo non c’era nulla.
Uno stato artificiale, un albero senza radici.
In Germania orientale il socialismo non era l’ideologia dello stato, ma lo stato stesso. Una volta tolto il socialismo l’Ungheria sarebbe rimasta Ungheria, non c’era dubbio, come in effetti fu dopo il crollo del comunismo. Ma dietro il comunismo della DDR non c’era dietro una Germania, non c’era niente.
Cosa voleva dire rappresentare l’Italia?
Fino al 1972 nessuno degli stati occidentali riconosceva la Germania orientale, anche se riconosceva tutti gli altri paesi comunisti. La Germania Federale (Bundesreplublik Deutschland, BRD) aveva creato la dottrina Hallstein: chi avesse riconosciuto la DDR avrebbe automaticamente rotto i rapporti diplomatici con la BRD. Poi, con le discussioni che portarono all’atto finale di Helsinki firmato il 1° agosto 1975, cominciarono dei negoziati con tutti gli stati, compresa la DDR. Arrivati a quel punto non si poteva più rifiutare il riconoscimento, che arrivò da tutti gli stati della Nato, ma con alcune limitazioni. Poi c’era Berlino, con il suo statuto speciale… Vi arrivai il 1° dicembre 1987.
Come giudica la celebre frase di Andreotti che disse di preferire due Germanie a che ce ne fosse una sola?
Andreotti era un gran plagiario (sorride, ndr), me ne accorsi varie volte quando era ministro degli Esteri. Quando sentiva qualcosa che gli sembrava interessante o spiritosa se la annotava in un librettino che portava sempre con sé, e al momento buono la tirava fuori. Quella frase non è di Andreotti, ma di François Mauriac, che la usò negli anni 50 scrivendo sul Figaro.
E perché Andreotti la fece propria?
Accadde ad un festival de l’Unità, che frequentava specialmente in quel periodo in cui sperava di diventare presidente della Repubblica; ma per diventarlo c’era bisogno dei voti comunisti… e quella frase suscitò l’entusiasmo in tutti i membri del Pci. Fu grave, perché non solo legittimava la DDR, di più, riconosceva, per dir così, l'”eternità” della Repubblica democratica. Chiamarono l’ambasciatore a Bonn e lo rimbrottarono. Il fatto provocò un po’ di freddo. Poi ricordo anche un altro episodio…
Prego.
La senatrice Carettoni (Tullia Carettoni Romagnoli, prima socialista poi indipendente con il Pci, ndr), presidentessa dell’associazione Italia-DDR, era mia amica, veniva spesso in Germania e io ero lieto di ospitarla. Le cose ormai andavano male, mi disse di aver parlato col presidente della commissione Esteri della camera, Manfred Feist, che era il cognato di Honecker, il quale le aveva detto: “sono momenti neri per noi, per fortuna in Italia abbiamo un amico…”. Era Andreotti! Non era comunista, Andreotti, ma opportunista sì.
Cosa ricorda del periodo che precedette il 9 novembre 1989?
Un episodio che chiamo la cena degli addii. Noi ambasciatori fummo invitati a celebrare il 40esimo anniversario della nascita della DDR. C’erano tutti i capi comunisti, da Gorbaciov a Ceausescu, a Jaruzelski, a Straub, e tanti altri. C’erano anche i rappresentanti di tutti i partiti comunisti, ma non gli italiani. Honecker aveva fatto un discorso chiuso e conservatore, era stato molto più aperto quello di Gorbaciov… ad un certo punto mi accorsi che Gorbaciov era sparito, il suo posto era vuoto. Poi sparì Jaruzelski, e via via, uno ad uno, tutti gli altri. Mi venne in mente, all’improvviso, la “Sinfonia degli addii” di Haydn, nella quale ogni musicista, finita la sua partitura, prende il suo strumento e se ne va, lfino a che rimane solo il direttore. Anche la “partitura” della DDR, dopo 40 anni, stava finendo. Ci dissero che la cerimonia era finita e ci accompagnarono verso una uscita secondaria. Quando raggiunsi il mio autista capii il perché: davanti all’ingresso principale c’era una violenta manifestazione di 10mila persone che urlavano contro Honecker e il comunismo,e chiedevano libertà. Ci furono molti feriti, centinaia di arresti.
E’ ormai riconosciuto che la riunificazione tedesca è stata il capolavoro politico di Helmut Kohl. In che senso secondo lei?
Anch’io penso che si sia trattato di un capolavoro. Kohl non fece nulla a caso, nemmeno subì gli avvenimenti, e ogni sua decisione fu attentamente calcolata, programmata. Intanto, aveva dato un sacco di soldi all’Ungheria che si ritrovava in pessime condizioni economiche. A patto, però, che questa aprisse la frontiera. Aveva immaginato bene che cosa poteva succedere. L’Ungheria aprì la frontiera, e quando i tedeschi videro in tv cosa stava accadendo, chiesero subito il permesso di andare in Ungheria… il governo, stupidamente, non capì che cosa si preparava e concesse i passaporti. La gente si precipitò in Ungheria ma non per restarci, bensì per passare in Austria. In pochi giorni se ne andarono 300mila persone.
E verso la DDR?
In politica interna Kohl propose alla DDR una confederazione. La DDR sognava una confederazione paritaria, con elezione di pari rappresentanti nel parlamento federale; un’utopia, dato il peso demografico della BRD, ma questa prima proposta cominciò a lavorare sotto traccia nella mente non solo del governo di Honecker, ma anche della popolazione. La quale già era abbastanza agitata per tre affari: il primo, la decisione di Berlino est di concedere i passaporti a chi voleva andarsene….
E gli altri?
Il secondo, l’imprudenza di Egon Krenz (il braccio destro di Honecker, ndr) che era stato in visita in Cina nei giorni di Tien an men, e aveva dichiarato che se qualcosa di simile fosse successo in Germania, avrebbero saputo dove prendere esempio… Il terzo, ci furono le elezioni amministrative e per la prima volta gli oppositori, ricorrendo allo stratagemma delle schede bianche, misero allo scoperto il fatto che le elezioni erano truccate. Tutti questi elementi avevano creato uno stato di grande agitazione. Senza dimenticare, ovviamente, l’episodio dei rifugiati nell’ambasciata tedesca occidentale di Praga. La DDR fu felice di etichettarli come traditori, i “traditori” non vedevano l’ora di imbarcarsi sui treni che li portavano all’ovest. Fu uno schiaffo per il governo perché dimostrò che si voleva essere espulsi dal proprio paese.
Come spiega il fenomeno della Ostalgie, e il fatto che oggi un partito come Die Linke (erede della SED, il partito comunista di allora) prenda il 20 per cento nei vecchi Laender?
Ognuno dei poliziotti che stavano alla frontiera per ammazzare che cercava di scappare era pagato più un professore universitario, ed erano migliaia. Nella DDR c’era un detto, secondo il quale in un gruppo di tre persone una era certamente una spia… tutti vedevano, riferivano, archiviavano, catalogavano, a volte perfino i figli contro i padri, le mogli contro i mariti. La Stasi era una polizia segreta più numerosa e perfino più efficiente di quella sovietica. Tutto questo gigantesco apparato è rimasto disoccupato, con conseguenze di lungo periodo come quelle che lei ha citato. A mio modo di vedere la Ostalgie ha una base economica; anagrafica ed economica.
Il Muro e la riunificazione fanno ancora parte della memoria storica tedesca attuale?
Me lo auguro. La Germania, culturalmente e spiritualmente, è stata sempre una. Kohl è stato il Bismarck del XX secolo, con una piccola differenza, che Bismarck ha fatto tre guerre per unificare politicamente la Germania, mentre Kohl la guerra l’ha fatta coi soldi. Ma neanche i soldi sarebbero bastati, se non fossero stati al servizio di un profondo desiderio di unità e libertà.
(Federico Ferraù)