Sebastião Salgado è un uomo salato; i suoi occhi, due cristalli di sale, con sfumature oceaniche. Lui ha preso una macchina fotografica come una fiaccola da sotto il moggio e ha cominciato a guardare la terra, i suoi abitatori, i distruttori, i carnefici, i custodi e li ha illuminati immortalandoli. Dal suo lavoro di una vita è tratto il film-documentario di Wim Wenders intitolato Il sale della Terra che ha meritato diversi riconoscimenti tra cui il premio speciale della Giuria “Un certain regard” a Cannes quest’anno. Girato in collaborazione con figlio di Salgado, Juliano Ribeiro, è uno spettacolo straordinario; non si tratta di una biografia, anche se quella del fotografo è certo una vita fuori dal comune, ma tiene il registro biografico solo come sottofondo alla rappresentazione dell’intera umanità moderna e una preveggenza di futuro.
Lui non è mai da solo con il suo obiettivo: penetrano sulla pellicola della sua anima gli uomini e il paesaggio del loro destino.
La voce di Salgado accompagna tutta la visione, con interventi di Wenders e del figlio, infine della amatissima moglie Leila. Quella voce tiene le redini delle nostre emozioni, che cominciano a percuoterci fin dall’apertura, con le famose foto dei minatori della Sierra Pelada: uomini liberi, sottolinea la voce narrante, che si rendono schiavi della fame dell’oro. Appaiono come una brulicante distesa di insetti infangati, dalle schiene lucide ognuno con un sacco lurido, la scommessa di qualche pepita: un ragazzo, appoggiato a un palo, riposa; appare il cristo nascosto.
Ecco, il titolo (Il sale della terra) è una citazione evangelica, ma il fotografo, per la sua fede marxista, è dovuto fuggire dal Brasile e dalla sua fattoria nello stato di Minas Geiras, lasciando i genitori e sette sorelle. Si laureerà in economia, in Francia; sua moglie gli regalerà la sua prima fotocamera: pochi anni dopo nasce la decisione condivisa di lasciare un comodo impiego in una banca londinese e l’inizio del peregrinare. Prima il ritorno in Brasile: la sua caccia all’uomo è aperta. Incominciano a inseguirsi sullo schermo foto di uomini lontani, tribù Indios, amazzoniche, volti che sono contorti come radici e sono a tutti gli effetti le radici del Brasile, delle Altre Americhe (titolo del primo lavoro), dell’universo umano.
Credo che Salgado stesso sia sorpreso e percosso dall’esito del suo stare di fronte a quegli uomini. Ai loro figli. Biondo e barbuto, appare come un semidio, e forse, loro, lo credono. Forse anche noi, alla fine. Perché lui arriva sempre a quella luce in ogni sguardo, anche in quello della donna Tuareg cieca.
Infuocate poi le visioni del cuore del film: quando le mani degli uomini, da laboriose e artigiane, diventano vuote e omicide. Affamate. Arrivano dolorose come schiaffi le foto della fame e della carestia: i figli denutriti, le mammella svuotate, i padri inermi: è la Shoah sconosciuta, i genocidi africani.
Lui cerca i profughi, i rifugiati, non gli importa dei già morti; quando arriva in Ruanda e documenta le strade disseminate di cadaveri, torna indietro, nei campi dei rifugiati, li insegue nelle loro infinite Via Crucis. Li vede crollare esangui: e quegli ultimi sguardi ci perforano l’anima. Li segue nella foresta, duecentomila persone che spariscono, impazzite, deliranti, inghiottite dalla loro stessa fame.
L’uomo è il più feroce degli animali, ci viene ripetuto. Lo capiamo.
L’inferno esiste, è documentabile. Lo costruisce l’uomo.
Di cosa è capace un uomo? Di cosa è capace una donna?
La dolce Leila, moglie di un Sebastião ormai svuotato, lo abbraccia e lo riporta a casa; hanno avuto due figli, Juliano, per cui il padre è un eroe, e Rodrigo, affetto da sindrome di Down, che lo ha introdotto a una speciale forma di comunicazione, utile rivelazione per il suo lavoro. Il ritorno alla fattoria in cui è nato per curare il padre morente, serve all’inizio della catarsi: incomincia la cura, cioè la ricerca dell’anima feconda, dell’uomo che mette le sue mani al servizio della terra. Leila ha l’idea di ripiantare la foresta in quei possedimenti ormai deserti, prima percossi dalla grande siccità e poi disboscati completamente, per pagare gli studi ai ragazzi.
Fondano l’Istituto Terra: rinasce nell’artista la consapevolezza della terra, la sua indicibile capacità di rinascita, come una resurrezione del mondo, come una redenzione. Questo rimette in moto Salgado, lo porta a cercare di fotografare la verginità del nostro pianeta e, sempre, dei suoi abitanti; gli ultimi saranno i primi, si realizza Genesi, la sua mostra più recente.
Settant’anni di foto e due milioni di alberi piantati.
Ma il suo pensiero non si riconduce all’ecologismo: non è una presa di posizione, meno che mai una riduzione. Piuttosto una resurrezione e una premonizione, una promessa da mantenere. E la necessità di essere almeno in due, lui ci fa sapere quanto la sua donna, al contrario di Eva, gli sia stata fianco e giaciglio.
Bisognerebbe portare i nostri ragazzi al cinema, farli restare in queste due ore salatissime e brucianti, certe foto ustionano la coscienza.
Solo se sai bene cosa lasci puoi decidere la direzione verso cui andare, solo se vedi la crudeltà e la ferocia puoi coscientemente sperare di non usarle.
Sebastião Salgado ha deciso cosa fare di sé, del suo talento e di ciò che ne ha ricavato; la ferita che ci infligge, sia benedetta; la terra che lui ci consegna ha ancora bisogno di essere guardata dall’uomo. Un soggetto, ci insegna, ha bisogno del paesaggio per risaltarne in bellezza.