Caro direttore,
ho letto con piacere la lettera di Peppino Zola sugli articoli di Massimo Borghesi, perché mi ha riportato indietro nel tempo e ai miei primi incontri con don Giussani, un po’ più recenti, “solo” cinquant’anni fa. Incontri determinanti, tanto che in quel Movimento continuo a vivere.



Vi arrivai da cattolico, ex oratoriano, che andava regolarmente in chiesa, solo con una certa avversione per le associazioni, quindi con un certo sospetto anche verso Gioventù Studentesca. Tanto più che già lavoravo e andai ai primi incontri solo per fiducia di un paio di amici che mi avevano invitato. Il resto lo fece l’incontro con don Giussani, e il disegno di Dio che attraverso lui mi si manifestò più chiaramente che mai.



La prova del fuoco arrivò con il 1968, quando ciascuno di noi dovette decidere da che parte stare. Io decisi di stare con quell’incontro che aveva dato un significato più pieno alla mia appartenenza alla Chiesa, che mi aveva fatto riscoprire la Tradizione, non come una serie di atti ripetitivi ancorché buoni, ma come coscienza di appartenere alla storia della Chiesa, alla storia della Salvezza. Anche se tanti se ne andarono, forse la maggior parte, compresi molti di quelli che allora apparivano i capi del Movimento, convinti che quello fosse il suo sbocco naturale, magari definendosi un po’ confusamente “cattolici maoisti”.



Quelli che rimasero, compreso me nel mio piccolo, rimasero quindi fedeli alla loro storia, perciò ha ragione Zola, non vi fu nessun cambio di linea. Tuttavia, leggendo i due articoli di Borghesi cui lui si riferisce, non riesco a cogliere la sostanza della polemica, perché non mi sembra che il professore dica che Giussani cambiò linea. Mi pare che Borghesi sottolinei come il ’68 fu una rottura per la società, e anche per la Chiesa, della situazione preesistente e che don Giussani fu uno dei più profondi nel riconoscere questa rottura e nel reagire perché, al di là delle forme storiche di una tradizione, fosse salvato e portato al mondo il contenuto della Tradizione della Chiesa. Ed è vero che ciò non fu compreso da parte del mondo cattolico, anzi fu spesso osteggiato.

Il nome stesso assunto dal Movimento è estremamente significativo, in quello che è divenuto storicamente e in quello che venne allora discusso come possibile alternativa: Comunione è liberazione. Non più una denominazione “categoriale” (Gioventù Studentesca), ma un vero e proprio manifesto da contrapporre a chi poneva in tutt’altro che Cristo, e la Sua Chiesa, la liberazione. Un annuncio da portare, ovunque uno fosse, nella scuola, l’università, nel mondo del lavoro, nei quartieri, in altri Paesi in cui uno si trovasse, persino in politica, a chi si incontrava, perché la modalità rimaneva quella dell’incontro, cioè del giocare in prima persona se stessi. 

Con un’aggiunta, però, la necessità di costruzione di una cultura, anche qui non intesa in primo luogo come “sapere”, ma come capacità di giudicare la realtà alla luce di quell’Incontro fondamentale per la nostra vita, un rendere ragione di ciò in cui credevamo. Ricordo una lezione in cui don Giussani riportava la crisi del cattolicesimo seguita all’inurbamento proprio come una conseguenza di non aver saputo trasformare in cultura quell’habitat naturalmente religioso che era la civiltà rurale. Lo stesso problema si sono trovati di fronte i cattolici dopo il ’68, ed è ancora il compito cui devono attendere i cristiani.  

Non ho la capacità, e neppure l’intenzione, di analizzare quanto scritto da Borghesi, ma questo è il modo in cui ho interpretato quanto da lui scritto alla luce della mia storia personale. E non mi trovo né falsificato, né offeso.

Dario Chiesa