«Piove / non sulla favola bella / di lontane stagioni, / ma sulla cartella / esattoriale», scriveva agli inizi degli anni Settanta Eugenio Montale. Svanito l’arcobaleno dannunziano, «piove / in assenza di Ermione / se Dio vuole, / piove perché l’assenza è universale». Piove come in questi giorni, sulla Liguria montaliana e non solo, come piovono i guai, le tasse, le incombenze: «piove perché se non sei / è solo la mancanza / e può affogare».



È terribile se la pioggia ci trova soli, affogati nell’«assenza universale». Forse il massimo che si può sperare è, leopardianamente, la quiete dopo la tempesta. Prima del «sol che ritorna», però, rimane il lungo tempo dell’«affanno», quando un uomo può solo implorare che passi, almeno per poco, perché in quella breve interruzione riprende fiato e «de’ mali suoi men si ricorda»: «piacer figlio d’affanno», sentenzia Leopardi, in quanto esso è solo la «gioia vana» di un provvisorio «uscir di pena», ma la tempesta non tarderà a ripresentarsi. 



Intanto esce l’album di Francesco De Gregori, che duettando con Ligabue tira a nuovo una canzone vecchia quanto Piove di Montale, Alice, che nella seconda strofa fotografa una scena di pioggia: «E Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. E rimane lì a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va: ma tutto questo Alice non lo sa». Solo chi conosce i meandri della biografia di Cesare Pavese riesce a decifrarla: quel Cesare, infatti, è proprio il poeta negli anni liceali, di cui la (discutibilissima) biografia di Davide Lajolo racconta un appuntamento «di fronte alla porta principale del caffè. Alle sei in punto, Pavese è in attesa. Ma l’attesa si prolunga; la cantante-ballerina non arriva né alle sei, né alle sette, né alle nove. Pavese aspetta sempre, e prolungherà l’attesa fino alla mezzanotte. Non lo fa deflettere dal suo proposito la pioggia insistente che dalle undici gli cade addosso; né si muove anche quando è certo che la ragazza non verrà più. Soltanto quando un orologio batte i dodici tocchi della mezzanotte, triste, annichilito, si decide a tornare a casa fradicio d’acqua e di freddo»



De Gregori ha saputo portare in rilievo una scena che sembra impregnata dell’amaro sapore di un destino: la pioggia che insiste, l’amore negato, l’attesa più insistente della pioggia e del tradimento e che pure rimane travolta, dentro la sordità del mondo. Sotto quella pioggia resiste un’ostinazione da innamorato, che tuttavia non può rimanere impermeabile a tutta quell’acqua: che, a quanto pare, lasciò il segno in una pleurite che tenne Pavese per tre mesi lontano da scuola, oltre che perduto nel disinganno. 

L’immagine è efficace non solo per il destino di un poeta: a sommergerci è la pioggia delle fatiche, delle questioni irrisolte, quando dimentichiamo l’azzurro del cielo, che ormai si lascia intravedere rarissime volte, come scrive altrove Montale: «la pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa avara – amara l’anima». L’inverno ci piove nell’anima, un’ora dopo l’altra, le cose non funzionano, e la soddisfazione tanto attesa non si presenta come non si presentò la ballerina, e perdiamo ogni occasione come ogni tram di mezzanotte. 

Nei Fioretti di San Francesco, però, Leone si sente dire da Francesco che la «perfetta letizia» non proviene da quello che facciamo né da quello che sappiamo. «Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia».  

Come può una cascata di pioggia, e se non bastasse di neve e di freddo e di fame, e di rifiuto e di ingiustizia e di bastonate, come può quella stessa e più agghiacciante pioggia di Pavese e di Leopardi e di Montale essere il momento della «perfetta letizia» anziché della perfetta sconfitta? Come si può «volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi» sotto un cielo in cui, più che un’assenza universale, anche il diluvio universale parla di un Dio che la manda? 

All’uggioso «non sei» di Montale risponde uno straordinario incipit dei Promessi sposi. Siamo nel penultimo capitolo, e Renzo ne ha subite di tutti i colori. Ora sembra che «passata è la tempesta»: pazienza per la casa distrutta, i lanzichenecchi, la peste, don Rodrigo e tutti i guai passati; finalmente, dopo 36 capitoli, possono sposarsi. Lui esce dal lazzaretto praticamente senza avere più niente addosso né davanti a sé. «Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzaretto, e preso a diritta per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie»

Non se ne può più, davvero. Qui Renzo avrebbe dovuto alzare gli occhi verso quel cielo che  credeva abitato dalla provvidenza e rimandargli indietro una bestemmia per ogni goccia. Ma «Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata», perché sentiva che anche «nel suo destino» avveniva un «risolvimento». E non perché ogni faccenda si sistemasse: anzi, tutta la notte attraversò, stanco e affamato, Sesto e Monza e Pescate. «E potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com’eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell’ora potuta dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n’usciva come poteva, senz’atti d’impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l’acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno».  

Cosa lo sosteneva, passo dopo passo, in quest’ennesima tempesta? Cosa gli teneva in cuore ancora il sole anziché chiuderlo in un cinico “ci mancava pure questa”? Lo dice lui stesso, dopo chilometri in cui «non era mai spiovuto», quando arriva a casa di un amico, il quale, bello riposato e asciutto, «s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento. “Ohe” disse: “già qui? e con questo tempo? Com’è andata?”».

Al posto di una reazione furibonda, o dello snocciolarsi lamentoso dei tormenti accumulati, la risposta è disarmante: «”La c’è”, disse Renzo: “la c’è: la c’è”»

Questo lo rende malconcio e al tempo stesso «contento»: la certezza che lei c’è. Vorrei poterlo dire anch’io, sotto la pioggia dei miei guai. Perché la pioggia, in realtà, è inaccettabile «se non sei», senza un «amore ballerina», ma è tutt’altra storia quando la vita è piena di una presenza. Che non è un ombrello, si badi, perché non smorza di una goccia la tempesta: Lucia non era il rifugio di Renzo come Cristo non era il riparo di Francesco. Loro conoscevano la pena quanto Leopardi, Pavese e Montale, ma ci raccontano, così bagnati, che il piacere non è «figlio d’affanno» ma sboccia già dentro l’affanno se un amore gli dà senso: perché si può essere contenti non appena in quiete, ma anche inquieti. Possa succedere anche a noi di non dover aspettare un impossibile mondo senza pioggia e senza guai, ma di poter gridare, fradici proprio in mezzo alla tempesta: «la c’è».