“Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi ringraziare?” (Cesare Pavese).

La metafisica del dono, o della realtà come grazia, è la logica di fondo intorno a cui è costruito il libro di Antonio López, sacerdote della Fraternità dei missionari di san Carlo Borromeo, docente di teologia nel John Paul II Institute for Studies on Marriage and Family di Washington.



Il registro prevalente è con ogni evidenza quello del saggio filosofico, che non può che prendere le mosse dal punto sorgivo di ogni autentica riflessione sulla realtà della vita dell’uomo e sul mistero globale dell’essere che la avvolge da ogni lato. Lo stupore, ci ricorda l’autore nella scia della più classica ragione amante della ricerca del vero, è la fonte delle domande che interpellano il cuore e il pensiero dell’io che guarda al mondo e alle cose carico di tutto l’affetto di cui è capace. Lo scopo ultimo, è di quelli a cui un’intera esistenza merita di essere dedicata: “contribuire al recupero della memoria di Dio nella cultura odierna”. “Recupero” non astratto, fuori dal tempo, bensì dentro lo spessore più denso e materiale delle circostanze che ci sono date oggi da vivere.



Il problema che si pone è come tenere vivo il senso acuto del religioso — l’apertura alla tensione che spalanca all’accoglienza della fede — nel contesto di un mondo che sembra progredire secondo dinamiche di natura molto diversa. Un mondo che López cerca di comprendere nel suo insieme riconducendolo alla specificità della sua anima più profonda, identificata nello spirito “tecnologico”.

Qui “tecnologia” è usato in senso forte. Non include solo la disponibilità sempre più larga di supporti che potenziano le risorse della forza fisica e allargano il dominio della conoscenza. Indica l’approccio che informa tutta l’esperienza dell’uomo moderno: ne governa lo stile di rapporto con la realtà e si riflette nei termini in cui noi la registriamo nello spazio della coscienza. È “il modo in cui l’essere ci appare”, la struttura secondo cui noi lo pensiamo e agiamo all’interno di esso: è la nuova “ontologia” della contemporaneità, scrive l’autore, quella che ci spinge verso la dimensione della totalità manipolabile, di cui ci sentiamo artefici, che presumiamo di poter continuamente cambiare e riplasmare, sottoponendola al nostro uso e consumo, attraverso un processo di elaborazione che si compie nel tempo misurabile, sezionabile e controllabile, della storia. Il pensiero stesso conosce come suo approdo quello di diventare una “forma del fare”.



La proposta di lettura di Antonio López, che riprende, in particolare, le fertili suggestioni del filosofo canadese George Grant (il maestro anche di David Schindler e del suo L’ordine dell’amore), insieme a molta della migliore teologia del Novecento, è però lontana dallo scivolare in una apocalittica antimoderna.

La crescita della volontà di potenza dell’homo faber non è presentata come un’avanzata solo devastante, che ha fagocitato in sé tutta la realtà preesistente, annullando ogni traccia residua di resistenza, ogni resto vitale capace di testimoniare l’alterità di una diversa prospettiva sull’uomo e sul destino. La possibilità dello stupore è stata messa sotto scacco, svuotata nei suoi contenuti, ma non tagliata alla radice. È un respiro diverso che può riaffiorare anche sotto le macerie accumulate dalla mercantilizzazione e dall’omologazione generalizzata dell’esistenza. Il fuoco della “memoria” continua a covare pure là dove la fiamma appare ridotta ormai al lumicino.

López lascia intravedere le crepe che possono insinuarsi nel granitico impero del politicamente (e culturalmente) corretto, aprendo spiragli per il recupero ostinato di un senso più umano, più radicale e più comprensivo, del valore della vita e del ruolo della persona nel mondo di oggi. 

Cita in primo luogo il test della corporeità, che sembrerebbe, a prima vista, solo uno degli emblemi della modernità secolarizzata, compressa in un orizzonte di calcoli, fissazioni e strategie orientate al tornaconto immediato. Ma il corpo non ce lo siamo creati da noi stessi. Ce lo ritroviamo come “dono”: è l’evidenza fra tutte più oggettiva del nostro “essere fatti”, della nostra condizione strutturale di dipendenza. Nell’esperienza di ogni relazione di amore rivive lo stesso rimando all’altro che ci scavalca e da cui deriva la possibilità della nostra soddisfazione. I rapporti hanno poi bisogno di dimore per farsi carne e radicarsi nella vita delle persone: la casa può diventare a sua volta il “luogo di una chiamata”. Dalle relazioni vitali e dall’intimità della casa si parte per lanciarsi nella realtà del lavoro: anche il lavoro può riscattarsi trasformandosi in un campo in cui dispiegare il senso del servizio, dell’opera di collaborazione a un disegno che non è il proprio, nella pratica del sacrificio vissuto come espansione dell’amore per qualcuno a cui si è legati. 

La casa e il lavoro, in dialogo tra loro, possono lasciarsi attraversare entrambi dal loro rovesciarsi nella preghiera: non si tratterà più di una devozione esteriore, ma della restituzione alla fonte dell’essere di tutto ciò da cui siamo investiti come dono nell’esistenza, in cui ci immedesimiamo, e che possiamo rimettere nelle mani del primato di Dio, passando dalla volontà di dominio alla riconoscenza dell’offerta. “Pregare”, nel contesto ipertecnologico, in forza del ribaltamento a cui si possono piegare le spinte unilaterali dell’autonomia antidivina, può significare imparare a “lasciar essere”, a “possedere e a trasformare offrendosi”, cioè ridonando ciò che ci viene elargito come bene non meritato né generato esclusivamente da noi.

L’esperienza antropologica elementare è il dato messo al centro del secondo capitolo. Il punto decisivo diventa qui l’insistenza sulla natura “filiale” dell’identità umana più profonda. Il “mistero della nascita” può ancora rivelare all’uomo moderno il senso del suo essere più vero. Nascendo, noi siamo “stati dati a noi stessi”. Non ci diamo da soli la vita. La vita è “un rapporto”, si fonda su un “rapporto costitutivo” e “amorevole”. L’esistenza è “un movimento verso chi ci ha donato la vita”, gratuitamente, e ci attende in modo altrettanto libero e pieno di apertura positiva, fecondamente materna.

Qualcosa di analogo può essere detto per l’affezione. L’uomo e la donna sono donati l’uno all’altro. Il maschile e il femminile sono messi in relazione dal reciproco integrarsi della loro “ricchezza” e della loro “povertà”. Nel loro donarsi “reciproco e asimmetrico”, “ricevendo nel dare” così come “dando nel ricevere”, uomo e donna, marito e moglie, cessano di essere “strumenti che si usano a vicenda per negare la propria finitezza”: affermano la dipendenza dall’altro, lo riconoscono come un “tu” e imparano fondersi con lui facendogli spazio in quanto altro che ci è stato dato. Cioè, scrive acutamente López, “affermano la verità dell’altro”, si educano alla distanza nel possesso, a possedere nella gratuità, perdonando “l’altro in quanto altro da noi”, nella lenta pazienza del tempo che fa maturare passo dopo passo, caduta dopo ricaduta. Anche qui lo spirito “tecnologico” può essere trapassato sul suo stesso terreno: si capovolge rimescolando in modo diverso gli elementi umani che la spinta della modernità ha costretto a venirsi incontro uscendo dai vecchi schemi legalistici di una tradizione irrigidita nei suoi formalismi privati di anima.

L’ultima parte del volume proietta il discorso sull’innesto della memoria di Dio nell’orizzonte della cultura (“il modo di vivere organizzato di una società”), e dunque nell’impianto anche politico-civile del moderno contesto tecnologizzato. È un contesto che si deve ormai realisticamente riconoscere “non più cristiano” nel suo trenddominante; dove il cristianesimo è stato rifiutato o dimenticato, o semplicemente neanche più incontrato nella sua vera essenza. Venuta meno l’unità “precaria” di un regime di cristianità cementato dalla forza sacralizzata del potere, che teneva insieme gli uomini e i diversi elementi della realtà ricorrendo ampiamente a “misure coercitive”, annullando le differenze, governando dall’alto e in un certo senso “dall’esterno” sulla globalità dell’universo sociale, non rimane che abbracciare decisamente la strada della libertà di azione del cristiano che vive all’interno del mondo, la strada della missione come testimonianza, che passa attraverso le opere rese segno dell’amore per Cristo che trasforma la vita.

Alla fine del percorso, si ritorna sempre alla centralità dello “stupore”: lo splendore del vero, del buono e del bello, in simbiosi tra loro, come via privilegiata che il mistero della vita continua a scegliere per rendersi eloquente e lasciarsi incontrare.


Antonio López, “Rinascere. La memoria di Dio in una cultura tecnologica”, Lindau, Torino 2014.