Tutto è cominciato nel novembre 2013, dopo che un accordo di associazione con l’Unione europea che sembrava imminente veniva ritirato dal governo e trasformato nell’opzione strategica diametralmente opposta, quella di nuovi accordi economico-finanziari con Mosca. E’ nata così la crisi ucraina, che ha avuto il suo epicentro in un luogo diventato presto il simbolo della libertà alla quale un popolo non poteva, non voleva rinunciare. Sul Majdan a Kiev ci furono scontri, manifestazioni, appelli. Era l’inizio di una crisi politica che sarebbe durata fino ad oggi, una crisi che ha gettato scompiglio in Europa, inasprito il nazionalismo russo, rimesso in moto la Nato, scatenato una guerra tra le truppe di Kiev e i separatisti filorussi nelle zone orientali del paese. Ma se la partita politica è ancora tutta da risolvere, la libertà, sul Majdan, ha vinto. Apparve subito chiaro, nel novembre di un anno fa, che si trattava di difendere la libertà civile dagli autoritarismi e dai poteri che, ora in una veste nuova, pretendono di soffocarla. “Il movimento civico di Kiev è la manifestazione più imponente in difesa dei valori europei mai esistita dal momento della fondazione dell’Unione Europea” ha scritto nel febbraio scorso, su queste pagine, il dissidente Konstantin Sigov.
Padre Mychailo Dymyd, sacerdote greco-cattolico ucraino e docente dell’Università Cattolica di L’viv, si definisce «uno dei cappellani del Majdan». A un anno dagli avvenimenti, gli abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza sul campo.
Padre Dymyd, ci spieghi come è nata la tenda-cappella in mezzo al Majdan.
Questo desiderio, questo movimento non è venuto da un’organizzazione, da una cerchia, da una persona che un giorno ha detto: «Avanti, costruiamo una cappella, raccogliamo la gente a pregare». No! Tutto questo è avvenuto come il radunarsi di un popolo chiamato da una voce interiore: questa voce per noi cristiani è quella dello Spirito Santo. C’è un momento in cui sentiamo e vediamo quello che in realtà è già nel nostro cuore, ma che nel quotidiano, quando siamo tutti concentrati su altre cose, non vediamo. Questa è la Pentecoste, questo momento magico che arriva una volta nella vita dell’uomo.
Lei ha in mente della circostanze, dei fatti precisi in cui ha visto personalmente come la presenza della Chiesa, dei sacerdoti, dei credenti abbia impedito la violenza?
Sì, ho partecipato anche personalmente a momenti così. Non mi ricordo esattamente la data, un giorno c’è stato un grande scontro nel Parco Marinskij — il «Parco di Maria», Maria Madre di Dio, anche se non facciamo mai questa associazione. Io mi trovavo tra la polizia schierata e la gente, c’era uno corridoio tra loro; ad un certo punto la polizia ha cominciato ad attaccare e io sono fuggito con la gente, con la folla che scappava dalle pallottole. Ho sentito una pallottola accanto al mio orecchio, correvo e mi sono detto: «Signore, perché questa pallottola mi è passata accanto e non mi ha preso?». Correvo, e correvo a testa bassa, poi ho imboccato una via laterale e mi sono fermato.
E ho visto che degli uomini avevano preso uno dei tituški. Allora sono accorso e ho detto loro: «Cosa fate? Lasciatelo!», «Ma no batjuška, questo è un provocatore». «Lasciatelo, avete altro da fare». E loro l’hanno lasciato. Capitavano cose così.
Quando è andato da L’viv a Kiev e perché?
Ci sono andato il 23 di novembre, subito! Ho visto i miei studenti dell’Università Cattolica di L’viv mettersi in movimento, e dietro a loro si sono mossi gli studenti delle altre università. Era il periodo in cui si cambiano le gomme della macchina; io stavo dal meccanico quando ho visto passare gli studenti che si dirigevano in centro città per protestare, e mi sono chiesto: «Tu che cosa puoi fare?». Non ho trovato risposta alla domanda su cosa fare in pratica; da una parte capivo il loro bisogno di libertà e di dignità, ma non sapevo che cosa dovevo fare io. Il giorno dopo in università ho letto sulla posta elettronica interna che gli studenti della facoltà di giornalismo e di storia stavano organizzando un pullman per andare a Kiev e cercavano un padre spirituale. È andata così.
Quindi è stato grazie al loro desiderio di trovare un sacerdote… Anche altri sacerdoti sono andati a Kiev così, per seguire la gente che andava?
In principio sì, per seguire la gente, o per una voce interiore; per me questa voce si è fatta sentire attraverso gli studenti, perché gli studenti sono andati per primi. Loro hanno iniziato questo “tempo di Dio”, questo kairos: era il tempo di andare, di fare. Che cosa sarebbe successo non lo sapevamo ma bisognava andare.
E adesso Lei questo movimento come lo vede proseguire? Questo tempo dello Spirito che ha aiutato voi a proseguire la protesta, è ancora in azione?
È come un albero radicato in un terreno dove non c’era più acqua. E a un certo punto l’acqua è riapparsa. L’albero non cambierà la sua struttura o il suo fogliame da un mese all’altro, neanche da un anno all’altro, ha bisogno di assorbire quest’acqua. Penso sia successo questo. Questa esperienza di solidarietà, di bontà, di azione, di reciproca benevolenza che centinaia di migliaia di persone hanno vissuto non può rimanere senza frutto. Il primo frutto che io vorrei ognuno sperimentasse è il cambiamento interiore, cioè ritornare nelle famiglie, nelle scuole, nelle istituzioni e portare luce a tutti i momenti di tenebra. Lavorare onestamente, non dare più bustarelle. Perché tante volte la corruzione comincia non da chi riceve i soldi ma da chi li dà… Questo è il mio auspicio per il futuro dell’Ucraina, per tutti gli ucraini.
E il secondo frutto?
Il secondo frutto è che il cambiamento diventi realtà, diventi un cambiamento interiore che piano piano cambia il modo di agire quotidiano. Anche nelle Chiese c’è un cambiamento; le Chiese hanno capito che la loro comunicazione con il popolo non era all’altezza. In questa circostanza ognuno ha appreso qualcosa per sé, e questo ritengo sia molto importante. Penso che le Chiese abbiano capito che l’umiltà è molto proficua. In questo movimento le Chiese non sono state i leader, hanno semplicemente accompagnato. È stato molto importante per le Chiese stesse capire che devono accompagnare, accompagnare è la presenza di Gesù stesso tra la gente, perché Gesù è già tra la gente, se non ci fosse Dio questa gente, queste migliaia di persone non si sarebbero radunate. La Chiesa, accompagnando, ha conquistato i cuori.
Chi ha coniato l’espressione «teologia del Majdan»?
Io. Il Majdan ci fa vedere Dio in una prospettiva più ottimistica rispetto alle circostanze normali, ci dice che non ci sono porte chiuse, situazioni senza uscita; molti ucraini pensavano che finita l’era di Janukovič saremmo entrati in un’altra dittatura corrotta, senza speranza. Il Majdan ha mostrato che c’è sempre una via d’uscita, e che non dev’essere per forza violenta ma può essere pacifica, forte come l’acqua.