Si ritorna a parlare di Eugenio Montale. In seguito alle recenti polemiche sull’autenticità dei suoi scritti postumi, affidati alla poetessa Annalisa Cima, questa interviene in un’intervista alla Stampa di mercoledì 19 novembre sui famosi Diari che, tuttavia, non sembrano fornire nuove tracce interpretative.



Un’altra recente intervista alla nipote del grande poeta ligure offre, al contrario, squarci di freschezza, come se tra le cimase delle polemiche riapparissero i bagliori della vita dell’artista legato da profondo affetto all’unica nipote, sua erede e testimone di tanti momenti felici. Bianca Montale, classe 1928, afferma che lo zio era in continua ricerca, “sulle tracce della presenza dell’invisibile di cui si sentiva amico” (intervista di Paola Bergamini, Avvenire 11 novembre 2014). Una ricerca tormentosa, ma leale ed alla quale Montale, come in un duello notturno, senza vedere il volto dell’altro, non si sottrasse mai.



Se rileggiamo le sue prime dichiarazioni poetiche ne rinveniamo i segni, come quando al cugino dell’ingegnere e scrittore Gadda rispondeva: “I miei motivi sono semplici e sono: il paesaggio (qualche volta allucinato, ma spesso naturalistico, il nostro paesaggio ligure che è universalissimo)”; l’amore, sotto forma di fantasmi che frequentano le varie poesie e provocano le “solite ‘intermittenze del cuore’ e l’evasione, la fuga dalla catena ferrea della necessità, il miracolo, diciamo così, laico (“cerca la maglia rotta” etc.)…” (in Domus, II/1934, Piero Gadda Conti). La parola miracolo viene pronunciata secondo un’accezione che espliciterà, più di dieci anni dopo, nella famosa Intervista immaginaria del 1946, quando dichiara che, al di là dell’immanentismo gentiliano come pure del positivismo idealistico di Croce, fu la filosofia dei contingentisti francesi ad influenzarlo, soprattutto Boutroux: “Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili…“. 



E tuttavia afferma esplicitamente che ciò che dà origine alla scrittura non erano queste idee, ma, diciamo così, una mossa più esistenziale, la sete, l’anelo di una possibile novità: “Ubbidii a un bisogno di espressione musicale — Montale, non dimentichiamolo, aveva studiato canto lirico e la poesia è suono, voce e silenzio e ritmo —. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione…”.

Questa esplosione (metaforicamente simile a quella del finale della Coscienza di Zeno di Italo Svevo, un autore “scoperto” da Montale, e drammaticamente vicina, nel tempo, alla fine del conflitto mondiale con le bombe abbattutesi sul Giappone) segna veramente l’esigenza di un’altra realtà, il desiderio che si apra e si rompa quella cappa che chiude e schiaccia l’uomo, quel coperchio, diceva Baudelaire, del cielo grigio di noia.

Proprio tale tensione esprime la ricerca continua fin dalla prima raccolta, Ossi di seppia del ’25, e della prima poesia, del ’16, la famosa Meriggiare, pallido e assorto, la ricerca fra le scaglie del mare, fra i barlumi delle cose, la ricerca di un “varco, di un anello che non tiene, di una maglia rotta” (scrive nella poesia liminare I limoni); e per tale ragione la forma di quella rappresentazione della realtà così scabra e dura è data dall’ampliarsi dell’orizzonte visivo, quasi attendendo l’apparizione del miracolo (non a caso l’ara semantica più ricorrente è quella legata allo sguardo, allo scrutare, allo scorgere, vedere e intravedere). Primo segno di questa apparizione è il paesaggio stesso, nell’infinità del mare o nella visione improvvisa di segni, come il giallo dei limoni, o di suoni o di colori che spezzano la catena chiusa del quotidiano; e sicuramente segno ulteriore è la poesia stessa. Una dinamica che, già nella prima raccolta, ma diventando centrale nella seconda, Le occasioni del ’39, si rivolge esplicitamente a un altro, una alterità non più letteraria, bensì reale; sono le figure di quelle che la critica definisce Visiting angel, donne amate per il segno che rappresentarono con la loro fedeltà e dignità di vita, come quando in Incontro del ’26 si rivolge a Annetta (senza citarla) e con un linguaggio dantesco esclama “allora ch’io discenda altro cammino …ch’io ti senta accanto, ch’io discenda senza viltà”.

O in Casa sul mare “Forse solo chi vuole s’infinita/ e questo tu potrai, chissà, non io./ Penso che per i più non sia salvezza,/ ma taluno sovverta ogni disegno,/ passi il varco…”, quasi rievocando Leopardi di A se stesso, Montale nel finale degli Ossi spera in un filo e, sebbene affermi che per lui come per i più non c’è, spera in un varco

Questa ricerca del Tu, del volto di un altro ha punte commoventi, come nell’incontro con Irma Brandeis, una ricercatrice ebrea che fu a Firenze nell’anteguerra per studiare Dante e che il poeta paragona all’Iride della mitologia e all’Iri di Canaan, figura profetica e perciò Cristofora; in Iride, del ’45, scrive “Perché l’opera tua (che della Sua/ è una forma) fiorisse in altre luci…” e conclude “perché l’opera Sua (che nella tua si trasforma) dev’esser continuata”. 

Così quella ricerca continua dell’Invisibile, come afferma la nipote Bianca, attraversa l’esistenza del poeta anche nello studio delle grandi eresie (in alcune liriche si definisce ironicamente “nestoriano”), o come vediamo in quella intensa rievocazione di Clemente Rebora, incontrato già gravemente infermo a Stresa; in un dialogo lungamente atteso questi evocava il “bisbiglio” del mistero, così presente e immanente, “Non senti?” diceva, quasi dando carne al desiderio del poeta ligure. 

Vediamo forse un’eco di quel bisbiglio in quel testo di SaturaDivinità in incognito dove scrive “quel brivido m’ha detto tuttoanche se l’agnizione mancava” (ancora una volta, come negli Ossi, rimane per sé un velo, una riserva, quasi leopardiana). Quella ricerca continua pure in molti dialoghi, con lo stesso Divo Barsotti (probabilmente ricordato in Zaccheo, un testo del Diario) fra i tanti. E come tralasciare, infine, quelle famose immagini con le quali rievocava la moglie, “con la quale aveva “studiato un fischio dall’al di là” e che sapeva ascoltare (“era il solo tuo modo di vedere”) e alla quale apparteneva la sua poesia, di lei i cui occhi erano i soli, seppure offuscati, a vedere: “Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio… perché sapevo che di noi due le sole vere pupille… erano le tue”.