Corrado Augias non è nuovo nell’enfatizzare, mi pare con un certo compiacimento, in particolari momenti e figure della storia della Chiesa presunte lacune comportamentali e pure morali, specialmente se esse siano in qualche modo riconducibili alla responsabilità diretta della gerarchia e del papato. Giorni fa, nuovamente, il giornalista di Rai 3 ha polemizzato su Repubblica con un lettore che gli muoveva garbatamente una critica circa un suo, forse piuttosto frettoloso, giudizio sul trattamento che il vescovo Romero — di cui si parla in questi tempi per il processo di beatificazione — avrebbe ricevuto da papa Montini prima, e papa Wojtyla poi.
La tesi di Augias, che riprende e semplifica in slang giornalistico una lettura avallata da certa storiografia piuttosto ideologizzata, riguarda la presunta ostilità che Paolo VI e Giovanni Paolo II avrebbero mostrato nei confronti del vescovo salvadoregno, in particolare in occasione delle di lui visite a Roma ai sacri palazzi.
Un’ostilità — e qui è il punto caro al giornalista — che altro non sarebbe che la riconferma del conservatorismo di questi due pontefici, i quali nel rapporto con l’uomo di Chiesa assassinato nel 1980 avrebbero potuto “sfogare” attraverso l’indifferenza ai suoi richiami alla giustizia per il popolo del Salvador la propria ostilità nei confronti di una Chiesa latinoamericana progressista, e nel caso specifico prossima alla controversa esperienza della teologia della liberazione, sostenuta dai sacerdoti Gustavo Gutiérrez, Hélder Câmara, Leonardo Boff e Camilo Torres Restrepo.
Un’interpretazione, con ogni evidenza, tutta ancora da discutere in sedi scientificamente appropriate, e col supporto di documentazione autorevole e sicura. Così come a suo tempo è stato fatto da Roberto Morozzo della Rocca, nei suoi importanti lavori Oscar Romero. Un vescovo centroamericano tra guerra fredda e rivoluzione (2003) e soprattutto Primero Dios. Vita di Oscar Romero, dove si sottolineano in particolare le accuse addirittura di reazionarismo che nell’epoca dell’ausiliariato egli ricevette in patria, definendolo «politicamente un conservatore e socialmente disponibile al cambiamento»: una tesi che, peraltro, anch’io modestamente ho sostenuto sempre su queste pagine.
Non è questa la sede e soprattutto l’occasione per prendere troppo sul serio le argomentazioni con cui Augias cerca frettolosamente di districarsi nell’affrontare la semplice critica ricevuta dal lettore, e cioè quella di non aver tenuto conto di quanto le encicliche dei papi e in particolare di Montini come la Populorum Progressio e la Ecclesiam Sua possano per certi versi essere accostate alla predicazione sociale di Romero. Soprattutto il tema dell’eventuale conservatorismo dei due papi — ma quale poi? quando e dove? — meriterebbe ben altro spazio di riflessione e soprattutto prudenza, alle quali ho cercato di attenermi nel mio Siri e Montini, mentre i giudizi riservati a papa Wojtyla impressionano francamente per superficialità (ci si sarebbe almeno aspettati un riferimento alla fondamentale biografia di Giovanni Paolo II scritta da Andrea Riccardi).
E non è la prima volta che insisto, fortunatamente non da solo, sulla pericolosità di una sovrapposizione forzata della mentalità politica nazionale al piano di discussione e confronto degli uomini di Chiesa (esempio: le categorie “destra” e “sinistra” conciliare… basterebbe notare che nel Vaticano II si votò in triplice senso: “placet”, “non placet” e il certo non parlamentare “placet iuxta modum”!).
Faccio pertanto solo due brevi osservazioni, più che altro perché sono consapevole del potere mediatico del giornalismo — oggi sono loro i “veri” intellettuali, quelli che condizionano l’opinione pubblica, che “fanno” la politica culturale con il loro volume di fuoco di ascolto… — e pertanto della sua pericolosità quando tende a semplificare sulla scorta di qualche deposito ideologico.
L’intento complessivo della risposta di Augias, e se non fosse per questo forse non meriterebbe nemmeno di soffermarvisi più di tanto, è quello ancora una volta di avallare un cliché progressivamente affermatosi con l’ascesa al soglio pontificio di papa Francesco, specie nella stampa laica (si veda, ad esempio, l’affaireScalfari): lo stile di Bergoglio, il papa del “buonasera”, starebbe scarnificando una Chiesa precedente tutta sbagliata e corrotta, o perlomeno sclerotizzata nelle sue posizioni di potere e di conservatorismo moralistico. E avanti così, con Montini (che certo ha i suoi problemi di doverosa riabilitazione storiografica in fieri, nonostante la recente beatificazione), e soprattutto Giovanni Paolo II (ma non era quello del “Santo subito”?, quello osannato da tutti, anche dai non credenti?), “feroci fustigatori” del povero vescovo latinoamericano, inascoltato e “tradito” dalla figura che l’avrebbe più di tutti dovuto e saputo sostenere, quella del Santo Padre.
È vero che lui lasciò quella nota desolante e frutto certo di uno sconforto dopo l’incontro con Paolo VI, così come pare plausibile pensare che un papa globale come Wojtyla trovasse opportuno mantenere una cautela verso potenziali avvalli a una dottrina sempre più inclinata verso la protesta violenta come quella della liberazione, e pertanto anche verso chi le venisse — più o meno consapevolmente e volontariamente — accostato. E si può legittimamente comprendere che tali posizioni potessero non essere comprese e abbracciate da chi allora si trovava eroicamente in trincea, come Romero.
Ma passare da queste notazione al giudizio tranchant di Augias circa un Romero tout court “sostenitore della ‘teologia della liberazione'” è però operazione tra il disinvolto e il riduttivo: stanno per esempio emergendo documenti dove egli preferì parlare di “teologia della Trasfigurazione”, o si può far riferimento alla sua ultima lettera pastorale dove rimarcò la profonda differenza della Chiesa con il marxismo riguardo l’esistenza di Dio, denunciando pertanto i pericoli di un utilizzo acritico dell’analisi marxista senza accompagnamento di una visione cristiana. Meglio, insomma, sarebbe stato sottolineare la pedagogia pastorale di Romero, finalizzata a edificare una chiesa comunitaria attenta ai più deboli e riconciliatrice, questo sì, come ha sottolineato Massimo De Giuseppe nei suoi lavori.
Forse per l’equilibrio della presa di posizione di Augias avrebbe giovato accostare la testimonianza, peraltro rispettabilissima, di Giuseppe Liberotti (dei Cristiani per il Socialismo) circa il “reazionarismo” di Wojtyla, a qualche fonte diretta di mons. Romero, la cui eroica testimonianza, beninteso, nessuno qui vuole mettere in discussione. E forse bisognerebbe accogliere il messaggio del nostro papa Francesco nella sua spontaneità, nel suo fondamentale, rinnovatore richiamo alla fede, evitando il rischio di confondere la sua importante opera di rilancio pastorale della Chiesa con una sorta di rivoluzionarismo d’antan.
Ovvero, ciò, come si diceva, che è proprio delle letture politicizzanti della storia della Chiesa, che nemmeno un vecchio comunista come il presidente Napolitano — appena salito a consigliarsi con il pontefice —, oggi concederebbe.