Guglielmo Spotorno ama molto parlare perché ha tanto da dire. Così, la conversazione con lui si è trasformata nel viaggio inaspettato alla scoperta di un uomo, di un artista e di un imprenditore che ciascuno potrà conoscere attraverso le sue opere esposte a Palazzo delle Stelline, a Milano, con la mostra “Guglielmo Spotorno. Tra Surreale e Reale. Opere dagli anni 70“, a cura di Luciano Caprile ed Elena Pontiggia, inaugurata il 20 novembre. 



Solo ora possiamo dire che il suo percorso di artista ha inizio molto presto, a 12 anni. I suoi primi disegni sono surreali nei personaggi e nei titoli. Uno di questi, Incubo, viene selezionato tra tutti gli “elaborati” delle scuole medie di Milano. È in pratica un “compito in classe”: 5 ore di disegno con libertà di soggetto. Dopo un mese Guglielmo viene invitato a Palazzo Venezia a Roma, dove sono esposti i disegni di ragazzi di tutto il mondo. Suscita la curiosità di Fellini: «Vorrei conoscere questo ragazzo, che a 12 anni sembra anticipare incubi futuri». Naturalmente non se ne fa nulla. Guglielmo non va a Roma. A quei tempi un viaggio, così lontano, è già un’avventura.



Questo è un episodio che anticipa una vita che sembra quasi un romanzo dove Guglielmo ha scritto altri capitoli nell’arte e nel lavoro. Eventi drammatici e spesso privi di un perché, come lo Tsunami; idee filosofiche antiche e sempre nuove come la caverna di Platone; città ferite e lontane come una personalissima Pechino, ma anche, qua e là, indicibili segnali di luce e di speranza. Sempre, in ogni caso, una curiosità sull’uomo e i suoi più intimi tumulti: tutto si intreccia e in qualche modo si ritrova nei suoi quadri che hanno il loro humus nelle avanguardie informali degli anni 50. I due critici della mostra hanno trovato nella pittura di Spotorno riferimenti a Sutherland e Jorn, due artisti che ha amato come “compagni” di strada e di emozioni. Ma la sua originalità è evidente in quanto i soggetti rivivono in soluzioni sferiche, dove la linea curva la fa da padrone.



Sono questi nomi ed altri la bussola della nostra chiacchierata a Celle Ligure, condotta con varie e sorprendenti pause alla scoperta di capolavori alle pareti: i disegni di Picasso, due ceramiche di Fontana (ma anche uno scarno crocifisso di filo di ferro intrecciato da ragazzo) e una depandance-laboratorio ricca di opere, alcune riprese ed altre abbandonate. 

Torniamo ai disegni di quel tempo e troviamo una inedita crocifissione tra gli ulivi e immagini del porto di Savona. Dove la precisione e la ricerca del particolare, finiscono anch’esse per essere un “incubo” perfezionista. 

Ma la vera sorpresa sono i soggetti surreali, dove Guglielmo bambino si ribella all’ossessione di preghiere e vespri imposti da sua zia Ester. La “pia donna”, che lo ospita a Celle per tre anni, pretende da lui i rituali di una vocazione religiosa: «Mi risparmiava solo i rosari notturni per i morti».

E lui, Guglielmo si “vendica” a modo suo: disegna con china e un pennino a torre, la zia. La donna ha un mento assurdo, la pipa in bocca e i vestiti che sono intarsi egizi e gonne scozzesi. Attorno, la folla di personaggi stralunati e perplessi. Se c’è un artista di riferimento, questo è Bosch, che Guglielmo certo non aveva mai visto.

Non c’è solo zia Ester, ma persone ben più importanti. Nel ’48 Nelson Rockefeller invita la famiglia Spotorno a New York, in compagnia di due tra le opere acquistate qualche tempo prima da suo padre, Il Figliol Prodigo di De Chirico e il Ratto delle Sabine di Martini. Il futuro vicepresidente degli Stati Uniti li voleva inserire in una mostra che riunisse l’arte italiana e americana in segno di pace: «In quegli anni c’era una sproporzione enorme tra la nostra casa di via Andrea Doria, non certo una reggia, e i quadri di Sironi, De Pisis, Carrà, De Chirico e altri, presenti del nostro insolito salone. Era chiuso e molto freddo e veniva aperto solo qualche volta, quando arrivavano gli artisti da noi a mangiare o a curiosare. A gambe incrociate, sul tappeto, stavo lì ad ascoltare le “liti” senza fine tra picassiani e anti picassiani».

Sta di fatto che la famiglia deve trovare una strada per questo figlio, nulla di più di una promessa artistica. Il padre è categorico. «Se diventa pittore, chi manda avanti la ditta?». La “ditta” non è poca cosa, sta diventando la più importante concessionaria Fiat in Italia. E così si sceglie per Guglielmo il liceo classico. L’istituto è il Berchet. Ed ecco che alla quinta ora del sabato, incontra una persona che lascerà un segno in una fede tutta sua. Ricorda Spotorno: «Quella di religione era l’ultima lezione, prima della domenica, e quindi anche la più sopportata. Non si aspettava altro che il suono della campanella per correre in strada».

Un giorno, a quella quinta ora, si presenta in classe un giovane prete brianzolo, da Venegono, un certo don Luigi Giussani. Mentre il suo compagno di banco, l’ormai celebre Claudio Pavesi, inizia a contestarlo dicendo che tanto fede e ragione non hanno nulla a che vedere, Guglielmo comincia, assieme allo stesso Pavesi e agli altri, a incuriosirsi. Oggi ricorda: «Cosa ha fatto Giussani di nuovo per “catturare” le persone? Non è partito col discorso religioso, ma con quello della cultura. È partito con Leopardi, da quello che ci poteva interessare, questa è una cosa fondamentale. Non ha cominciato a dire: “Parliamo dell’anima, dei comandamenti, di Dio”, no, lui ha voluto far capire che se l’uomo può comporre l’Infinito vuol dire che ha dentro di sé qualcosa di diverso e di più, ha dentro di sé Cristo».  

Gli aneddoti dell’incontro con don Giussani meritano altro spazio. C’è il raggio in largo Treves, le dispute con il professore di filosofia sull’esistenza dell’America, qui ne ricordiamo uno che stupisce quanto un taglio di Fontana: «Una volta Giussani arriva in classe e urla: voi non sapete che io potrei morire il prossimo anno! Avrà un tumore, ci siamo detti mentre facevamo silenzio. In realtà, come oggi si sa, aveva un problema al polmone. Qualche anno dopo, alla Cattolica… non ti vedo don Giussani, col suo baschetto blu di traverso e il suo borsone che cammina nel chiostro? Lui mi riconosce e ci salutiamo e io gli chiedo con ironia: “Scusi, ma lei come mai è vivo, non doveva essere morto?”. Lui ci ha pensa su un attimo e risponde: “Sono come un crocifisso destinato a scendere qualche volta dalla croce e a camminare”, e se ne va via». Sono questi gli uomini che piacciono a Spotorno, non quelli che finiscono dietro le loro tastiere, come si rappresenta ne L’uomo al computer. L’urlo quasi strozzato da una tecnologia che brucia le notizie e, con esse, il tempo per capirle.

Rimaniamo in Cattolica, dove Spotorno prima si laurea in scienze politiche, quasi un obbligo, «per il lavoro occorreva il titolo di dottore». Si iscrive poi a filosofia, la sua vera passione. Tra i suoi professori ricorda Sofia Vanni Rovighi — «la più brava di tutti» — ed Emanuele Severino, «il grande filosofo, che mi sorprende con un finale negativo». Come mai? Conquistato un 30, districandosi tra “struttura originaria” e “sentiero del giorno”, lo studente ha il diritto di porre tre domande finali al professore. Gliene basta una: «Professore, lei ha detto che morire, in fondo, non è altro che un disapparire. Poniamo che lei ed io siamo in una barca in mezzo al mare e io la butti giù, mentre siamo a largo. Perché la vedo dannarsi così tanto per mettersi in salvo? Lei non ha forse la certezza di riapparire? Per quale motivo lei non parla degli istinti, soprattutto di quello primario di conservazione?». La risposta, quella volta, è stata evasiva: «Vada a vedere quel mio saggio. Tutto lì».

Un vero unicum, con finale a sorpresa, è stato invece il rapporto con l’avvocato Gianni Agnelli: «La cosa più importante che ho fatto come imprenditore? Rompere con la Fiat dell’Avvocato dopo che mio padre aveva costruito da un cognome la concessionaria più importante e iniziare l’avventura con i Giapponesi della Toyota». Siamo nell’88, suo padre aveva seri problemi di salute, ma aveva ancora la forza di domandare, con un certo sarcasmo: «Quando vedremo la nuova Topolino?». Ormai quella era l’epoca della 131 e della Regata, già vecchie quando uscivano dalla catena di montaggio. Quella scelta comportò una liquidazione molto dolorosa. «Sei triste. Vedi il salone vuoto. Hai due soli collaboratori e ti senti dire da certi fornitori: “Se vuole, le portiamo via i ponti e i pezzi di ricambio, ma a costo zero”». 

«Il futuro della Toyota non era ancora presente. Dovevo fare una scelta tra la Ford, che prometteva un miliardo e mezzo solo per l’insegna con il nostro cognome, e la Toyota che ci diceva: Spotorno, guardi che all’inizio, per due anni, lei dovrà perdere». Spotorno, prima di scegliere, legge molti libri sulla filosofia Toyota, sul “just in time”, sullo “step by step” e incontra molti tecnici italiani che lavoravano con la Toyota in America.

Prima di tornare ai quadri c’è lo spazio per un’altra domanda sui tratti distintivi dell’imprenditore: «Saper assumere, comprare e vendere un immobile e fare una liquidazione. Insisto su questo punto. È necessario soffrire per riuscire a rinnovare… e far crescere figli e collaboratori con un nuovo prodotto».

La scelta di lasciare gli Agnelli per andare con gli sconosciuti giapponesi è un rischio anche maggiore, fa venire in mente le svolte di quei pittori che dopo una vita passata a tracciar paesaggi scoprono la pittura astratta. Certo, costruire un’azienda e creare un’opera d’arte non è la stessa cosa: «È molto più difficile l’arte, perché lì c’è un rischio creativo. Nell’arte sei da solo e il valore del quadro dipende da quanti lo condividono. In azienda sei da solo a decidere. Con i tuoi collaboratori non condividi opinioni estetiche, ma risultati di bilancio». 

La chiacchierata volge al termine e allora rieccoci ai quadri che verranno esposti alle Stelline fino al 7 dicembre. Le domande si moltiplicano, se ci si lascia ferire dall’osservazione: guardando i già citati Pechino e Tsunami, ma anche Web o le Libellule Pietrificate. Composti in tempi diversi, emerge una sensazione di vortice e connessioni di caos scandite da tocchi di pennello quasi regolari. Si possono leggere in queste opere l’uomo, i suoi interrogativi e le circostanze spesso caotiche che determinano la storia? All’inizio della conversazione il nostro autore ci aveva avvertiti che i quadri parlano da soli. Si tratta di vedere se hanno qualcosa da dire e se lo spettatore è capace di ascoltare.

Sono passate due ore e, prima di salutarci, raccogliamo alcune indicazioni di pensiero per accostarci ai suoi quadri: «Credo che questi rappresentino i due aspetti del mio carattere. Da un lato l’aggressività e dall’altro il perfezionismo. Dalla violenza dei “paesaggi marini” degli anni 70 al perfezionismo degli “insetti”, per arrivare alle “sofisticate trasparenze marine”».

C’è uno studio ben preciso dietro queste oscillazioni. «A volte cerco equilibri nelle parti del quadro, altre inserisco punti di attrazione che catturino l’occhio di chi guarda. Ad esempio un arancione».

Non si tratta di idee precostituite, di “file mentali” mandati in stampa via pennello: «Il quadro evolve mentre lo faccio». Così, se un fatto di cronaca fa balzare sotto i riflettori un grave inquinamento, nasce Sorgenia. Se le immagini dei Mondiali mostrano un Brasile dove tutti sembrano felici e contenti e intanto spuntano le favelas, questo controsenso dà vita a Rio. I Mondiali della povertà: «C’è un’emozione immediata — come in Fukushima — e poi una riflessione».  

Armonia e silenzio è, invece, «qualcosa di diverso e forse di più. Una sintesi del mio pensiero filosofico, che non posso certo spiegare. Anche perché è uno dei miei quadri che si possono ruotare e hanno quattro punti di appoggio alla parete».

La conversazione è davvero finita. Prevale l’uomo o l’artista? — chiede lui quasi sull’uscio con una provocazione di tono socratico. Tocca rispondere ricordando che la «più brava di tutte», alias Sofia Vanni Rovighi, insegnava che nella storia troppe volte si è passati dal prescindere al negare. Quindi, chi vuole capire l’uomo e l’imprenditore non può certo ignorare la sua arte e quello che lui cerca di trasmettere con le sue opere. «Un elan vital», per dirla con Bergson. «I miei quadri si devono muovere, andare da un chiodo all’altro e non fare mai macchia di colore come dicono certi architetti».

(Nicola Varcasia)


Guglielmo Spotorno. Tra Surreale e Reale. Opere dagli anni 70. A cura di Luciano Caprile e Elena Pontiggia, 20 novembre – 7 dicembre 2014, Fondazione Stelline, C.so Magenta 61, Milano.