Il commento forse più pertinente alle quattro ore del quinto viaggio internazionale del pontificato di Francesco, il più breve della storia dei viaggi papali, sta nelle parole del presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, che aveva invitato il Papa: «un fruttuoso incoraggiamento» per l’Europa e «la strada per un buon futuro». 



Dall’emiciclo del Parlamento europeo, Francesco si è rivolto, prima ancora che all’istituzione europea, agli europei, ai “cittadini europei”, perché l’Unione europea, se avrà un futuro, lo avrà dalla loro speranza e dalla loro fiducia nell’Europa. Questa speranza e questa fiducia, però, è l’Europa-Istituzione che deve alimentarla, e per certi aspetti riaccenderla, riscoprendo lo spirito dei padri fondatori, che non l’avevano certo pensata a misura della burocrazia europea o di una perenne trattativa tra Stati restii a cedere pezzi di sovranità, non poche volte più fittizia che reale nello strapotere di meccanismi di mercato ben più forti di regole e argini nazionali. 



Su questo, la lezione che ha colto benissimo il presidente Schulz, il Papa non ci è andato leggero: la «generale impressione di stanchezza, d’invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace», dove «i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni», non è una diagnosi “diplomatica” della situazione in cui versa l’Europa, e il consesso cui parlava. Ma Francesco ci ha abituati alla parresia, allo spirito di verità. 

Ben venga dunque il suo elenco di “doveri”, di impegni con se stessa, con le ragioni per cui i padri fondatori l’hanno voluta, che l’Europa ha davanti: lavoro, ambiente, temi eticamente sensibili, migranti, difesa della famiglia. Ma è un’agenda che solo un’Europa più forte, più “reale” sul piano “politico”, di una visione unitaria del destino dei suoi popoli, potrà non disattendere, dando agli “europei”  quello per cui è nata: la dignità della persona umana, dopo gli orrori di due guerre mondiali, come cardine della sua idea di cittadinanza. 



Un punto che Francesco ha sottolineato con vigore, invitando a far ruotare l’Europa intorno alla sacralità della persona umana, e non all’economia; a un’economia sganciata dalla sua funzione sociale, di strumento a servizio dell’uomo. Un’idea — questa della centralità della persona umana, il bandolo della matassa degli stessi sommovimenti della globalizzazione — che l’Europa proponendola a se stessa, e infatti è la sua “anima”, può proporre al mondo. Perché l’Europa, prima di essere forse ancora, ancorché in crisi, la più grande piattaforma economica del mondo, resta certamente la più grande piattaforma di diritti, dell’uomo e per l’uomo, che la storia abbia prodotto.

E questo lo deve alle sue radici, che non sono solo quelle cristiane, ma che nel cristianesimo hanno trovato la loro verità più radicale, perché sono le radici dell’uomo, che come il pioppo di Rebora, che Francesco ha citato al Consiglio d’Europa, ne reggono il fusto e i rami, capaci di tendersi al cielo, nel vento della storia. E sono queste radici cristiane — una rivendicazione di umanità per tutti, e non una rivendicazione confessionale — che Francesco ha invitato con forza ad accudire, come “dignità trascendente” dell’uomo, mistero a se stesso; che come il pioppo di Rebora, tronco di mistero, “si inabissa ov’è più vero”. Che è poi, umanamente, il cuore dell’uomo, dove è inscritta la bussola — «la sua innata capacità di distinguere il bene dal male» — con cui anche l’Europa, un’Europa troppo oggi di solitudini e paure, di egoismi e chiusure, può «riscoprire la sua anima buona».

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