La poesia interessa soltanto a chi ha qualcosa di più interessante della poesia: la vita, le cose.
Di Sherwood Anderson Pavese osservava che «nessuno è più lontano dalla letteratura e più vivente di lui, nessuno più innamorato delle cose e del mondo, in un modo ch’è quasi sensuale. Giunge al punto di dire, quest’uomo, che per far lo scrittore è anche bene leggere libri». Sì, perché la scrittura non nasce dalla lettura (come nel retorico suggerimento di tanti insegnanti: “per imparare a scrivere bisogna leggere”) ma dalla realtà (il che chiede di spostare lo sguardo dai libri al mondo).
Quando il postino interpretato da Massimo Troisi chiede a Pablo Neruda come si diventa poeti, si sente rispondere: «Prova a camminare lentamente sulla riva fino alla baia, guardando attorno a te». Guardare è l’origine: se non guardi, non hai nulla da dire. Pavese lo notava a proposito di Leopardi:
«Dev’essere importante che un giovanotto sempre intento a studiare, a voltar pagine, a cavarsi gli occhi, facesse la sua grande poesia sui momenti in cui usciva al balcone o sotto il cespuglio o sul rialto o in verde zolla. (Silvia, Infinito, Vita solitaria, Ricordanze). La poesia nasce non dall’our life’s work, dalla normalità delle nostre occupazioni, ma dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita. (Anche la normalità diventa poesia quando si fa contemplazione, cioè cessa di essere normalità e diventa prodigio)».
Clamorosa, nella sua semplicità disarmante, la pagina proprio di Sherwood Anderson sul «materiale del mestiere di un narratore»:
«Si è andati a passeggio per strada e si è vissuto intensamente. Che storie raccontano le facce nelle strade! Come sono significative le facce delle case! I muri delle case son spazzati via dalla forza dell’immaginazione e si vede e si sente tutta la vita all’interno. Che universale rivelazione di segreti! Tutto è sentito, tutto è conosciuto. Si cessa di esser consci della vita fisica del proprio corpo. La vita esterna è tutto, ogni cosa».
Andare a passeggio per strada sappiamo farlo tutti, ma è quell’intensità che abbiamo bisogno di reimparare. Sia io che Anderson giriamo per strada, ma la vera differenza non sta nella sua capacità di scrivere, quanto nella sua capacità di guardare le facce fino a coglierne la storia. Perché chi scrive, più che raccontare, cerca di afferrare quello che le cose e le persone raccontano. «Da dove la prendi la musica?» chiede, nella Leggenda del pianista sull’oceano, il trombettista al pianista. E lui lo invita a guardare le persone che affollano la nave: «Sapeva leggere Novecento: non i libri (quelli sono buoni tutti). Sapeva leggere la gente, i segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia, tutta scritta addosso».
Leggere un libro, per questo, vuol dire leggere ciò che sta fuori dal libro: risalire dalle parole ai fatti. Perché raccontare — questa volta Pavese lo dice di Calvino — vuol dire «trasformare dei fatti in parole», cioè «mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo». Infatti Anderson continua così:
«Datemi la penna o la matita e la carta, e vi farò sentire questo che sento ora – ah, proprio quel ragazzo là e che cos’ha nell’anima mentre corre ad affacciarsi alla finestra della casa vicina, sul far della sera; proprio cosa sta pensando quella donna mentre siede nella veranda di quell’altra casa tenendo in braccio il bambino; proprio le cupe cose celate nell’anima di quell’operaio che va a casa sotto quegli alberi. Sta invecchiando ed è nato Americano. Perché non si è fatto strada nel mondo e non è diventato padrone o almeno direttore di una fabbrica, e non possiede un’automobile?
Sono tornato di corsa a casa in camera mia, e ho acceso la luce. Le parole s’affollano. […] Mentre camminavo per la strada mi venivano tante parole, già tutte schierate! Ve lo dico io: le parole hanno colore, hanno odore; a volte si possono sentire con le dita come si tocca la guancia di un bimbo.
Non c’è ragione che non sia stato capace, mediante queste piccole parole, che non sia stato capace di darvi l’odore stesso della stradicciuola in cui ho camminato ora, di farvi sentire proprio il modo in cui la luce serale cadeva sulle facce delle case e della gente: la mezzaluna attraverso i rami di quel vecchio ciliegio tutto morto tranne un ramo vivo, il ramo che toccava la finestra in cui il ragazzo stava col piede sollevato, allacciandosi una scarpa. E c’era il cane che dormiva nella polvere della strada ed emetteva piccoli lamenti tra i sogni, e la ragazza in una strada vicina che imparava ad andare in bicicletta. Non si poteva vederla, ma dei suoi fratellini ridevano forte ogni volta che cadeva sul selciato.
La «fede nelle parole» è propria di chi ha fede nelle cose, cioè di chi vuole imparare a guardare. Per questo legge, per questo scrive: «je veux êter poète, et je travaille à me rendre Voyant» disse Rimbaud. Con gli occhi fissi sulle cose, perché i poeti non aprono piacevoli parentesi rispetto alla realtà ma ci affondano il coltello dello sguardo (io sono convinto che Omero non fosse cieco, ma ci vedesse benissimo).
Non vorrei mai che una debolezza dello sguardo frenasse lo stupore per le cose, come quando — ha ragione Pascoli — «a volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano. Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi».