Questo contributo potrebbe suscitare immediatamente, almeno in alcuni, una domanda del tipo: perché soffermarsi ancora sul marxismo e sul comunismo dopo il suo definitivo fallimento avutosi con i fatti del 1989? Non è forse, vero che interi popoli per lo più in modo pacifico, hanno conquistato la libertà e il diritto dopo decenni di oppressione e schiavitù? Non è vero inoltre, che in quella parte dell’Europa oggi non esiste quasi più nessun uomo che si dica marxista-leninista? Non è questa la dimostrazione che bisogna voltare pagina, che si è chiusa un’epoca e che se ne è aperta un’altra? Non si vuole, qui, di certo contestare la legittimità e la sensatezza di tali domande che potremmo, in un certo senso, sintetizzare con una frase che in una notte del novembre 1989 qualcuno scrisse sul muro di Berlino: “proletari di tutto il mondo, perdonateci!”.
Come non vedere in questi fatti e nella vita dei loro protagonisti la fine tanto agognata, di un incubo e il desiderio impaziente di scrollarsi di dosso al più presto le macerie putrefatte dell’ideologia ormai clamorosamente fallita?
Essendo però a tema di questo contributo il XXV anniversario degli eventi del 1989, dovremo fare lo sforzo di un piccolo approfondimento. Il 1989 chiude una fase della storia europea dominata dall’ombra di Yalta. Il nome di questa simpatica cittadina sulle rive del Mar Nero è venuto a simbolizzare la spartizione dell’Europa come esito del ciclo delle due guerre mondiali, considerate come due tappe di un’unica grande guerra civile europea.
La divisione dell’Europa aveva un significato strategico e geopolitico ma anche un significato filosofico strettamente intrecciato con il primo. I vincoli culturali e spirituali che rendono uno il continente europeo venivano violentemente spezzati con un atto di forza. E cosa voleva dire questo se non che la forza domina la storia e che morale, filosofia, religione e cultura sono in realtà solo sovrastrutture, e per di più non essenziali, che cedono all’eloquenza degli atti di forza? La divisione dell’Europa sembrava confermare la verità del marxismo come filosofia che insegna che l’uomo appartiene alla terra, e soltanto ad essa.
D’altro canto la divisione politica del continente era il risultato di una scissione che nasceva dall’interno stesso della cultura. Bisogna avere il coraggio di dire che, in un certo senso, Yalta non è stata solo un errore contro la cultura dell’Europa, ma un errore della cultura dell’Europa. E’ stato l’autoannientamento spirituale dell’Europa per mezzo di una cultura che rinuncia a comprendere e sperimentare la trascendenza dell’uomo, ed anzi si costituisce a partire dalla negazione di tale trascendenza. Ne è conseguito il pieno dispiegamento della volontà di potenza e del nichilismo, che ha condotto poi alle guerre mondiali e quindi a Yalta.
E’ necessario quindi forse ribaltare quel giudizio di Heidegger (analogo ad uno di Croce), per il quale ciò che contrassegna la nostra epoca e la consegna al nichilismo è l’espansione della tecnica che elimina dall’atteggiamento pratico e dall’esperienza vitale degli uomini la preoccupazione per la verità ed il bene.
Bisognerà dire al contrario che non è la filosofia ad essere distrutta dalla tecnica ma piuttosto la tecnica ad acquisire un significato ed un valore filosofico impropri a causa del tradimento e del suicidio della filosofia e della cultura. Questo suicidio della cultura coincide con l’ateismo. La trascendenza non è più trascendenza verso l’alto ma superamento dell’individuo nell’“essere di specie” (Gattungswesen secondo la classica definizione di Feuerbach). Questo essere di specie viene poi concepito da Marx come classe, sulla base della ideologia economica e, invece da Hitler come popolo (Volk) sulla base di una ideologia biologistica. Solo attraverso l’annientamento dell’individuo nel popolo diventa possibile, nei totalitarismi, quella totale mobilitazione delle energie che può condurre alla vittoria nella guerra totale intesa come guerra di popoli.
Il ciclo dei nazionalismi e dei totalitarismi che hanno funestato l’Europa negli ultimi secoli può essere ricondotta facilmente al tradimento e al ripudio delle sue radici ebraico-cristiane.
Lo ha espresso in forma icastica Aleksandr Solzenicyn: “tutto questo ci è accaduto perché ci siamo dimenticati di Dio”. Le istituzioni della nuova Europa e l’ideale europeista nascono sulle ceneri della II guerra mondiale che è stata, in un certo senso, solo un episodio di una lunga e feroce guerra civile europea che ha occupato il secolo che è appena trascorso.
Per comprendere a fondo i percorsi tragici della cultura europea è forse utile accogliere la proposta di Nolte, Furet e Del Noce, di una visione transpolitica della storia contemporanea. Marx riteneva che il motore della storia fossero le forze produttive ed i rapporti di produzione e che filosofia, religione, arte e cultura fossero semplicemente una sovrastruttura. Nolte e Del Noce (ma a ben vedere già il buon vecchio Croce) pensano che il modo in cui l’uomo concepisce i conflitti materiali nei quali è immerso sia almeno altrettanto importante che non la natura economica di questi conflitti. Si potrebbe citare a questo proposito Claude Levi-Strauss: che una determinata sostanza valga come “cibo” non dipende solo dalle sue qualità organolettiche ma anche dalla cultura e dalla visione del mondo dell’uomo che deve mangiare. Dal punto di vista organolettico la carne umana è “cibo” esattamente come il manzo. Tuttavia per noi essa non è cibo e non è una quantità economica significativa. La ragione è culturale. Per comprendere la storia dobbiamo capire come i soggetti agenti hanno vissuto gli avvenimenti. Dobbiamo andare alla loro cultura. E’ questa la verità dell’adagio hegeliano “la filosofia è il proprio tempo espresso in pensiero”.
Cosa è stato del resto il nazionalsocialismo se non un tentativo di pensare la storia e la cultura tedesca prescindendo dalla eredità cristiana, sospetta di essere troppo contaminata dallo spirito ebraico e latino considerato impotente nei confronti della lotta nella storia?
E cosa è stata la dittatura comunista e stalinista in Russia e, poi, in molti altri paesi europei, se non il tentativo di pensare la storia della Russia e dell’Europa prescindendo da quella eredità?
Come sostiene Ernst Nolte “Bolscevismo e nazionalsocialismo furono sempre delle antitesi, e lo restarono sino alla fine, ma non furono mai contrapposti l’uno all’altro in nessun momento in maniera contraddittoria e quanto più la guerra si avvicinava alla sua fine tanto più divenne conoscibile uno “scambio delle caratteristiche”” E’ una frase apparentemente un po’ ermetica che si tratta di chiarire. Che cosa significa questa assenza di contrapposizione in maniera contraddittoria? Che il nazionalsocialismo è stato subordinato al comunismo nella sua opposizione; si è limitato a rovesciare il comunismo, restandone però l’immagine speculare; ha trascritto in termini biologico-naturalistici le categorie storico-sociali del marxismo.
Fermiamoci sui concetti essenziali del comunismo e del nazismo, quelli di classe e di razza; la razza cos’è se non la trascrizione biologica della classe? E da questa prima opposizione dipendono tutte le successive: a una metastorica futura società senza classi corrisponde il mito della ritrovata purezza dell’ariano;all’ideale dell’eguaglianza, la società dei signori; alla pace universale che seguirà alla rivoluzione (e giustificherà ogni forma di terrore) l’esaltazione della guerra; e così via.
Certamente, questa interpretazione importa l’abbandono del “mito negativo del male assoluto” che, come fenomeno unico nella storia, il nazismo avrebbe realizzato. Ne rappresenta però insieme la critica più rigorosa, perché più ragionata, a cui il nazismo sia stato soggetto.
Si sostiene qui infatti che il Nazismo, lungi dal rappresentare la difesa di quei valori che il comunismo minacciava, doveva portare invece alla stessa negazione, proprio perché non riusciva che a essere l’immagine rovesciata del comunismo.
Il Nazismo si comprende allora come tentativo di una controrivoluzione preventiva, retta dal mito del passato e del ritorno all’origine opposto al mito marxista del futuro. Poiché i miti nell’epoca moderna tendono a presentarsi in forma di scienza o di ideologia scientifica, il mito dell’origine è mediato dal biologismo darwiniano esattamente come in Marx il mito del futuro è mediato dalla economia politica.
Per quanto riguarda il fascismo è scorretto identificarlo totalmente con il nazismo. Il nazismo, come abbiamo visto, è una rivoluzione di segno contrario rispetto a quella comunista che ne emula la spietatezza, alcuni aspetti ideologici e perfino alcune modalità organizzative. Il fascismo fu altra cosa. Esso fu una rivoluzione ulteriore, o meglio un tentativo di rivoluzione ulteriore rispetto a quella antecedente marxista-leninista che sostituiva alla idea di classe l’idea di nazione. Se guardiamo al Gentile, il vero e forse l’unico teorico del fascismo, vediamo come l’idea di nazione sia concepita in termini accentuatamente non ideologici e non razziali. Il collante che tiene insieme la nazione non è il sangue ma la cultura. In questo senso si potrebbe dire che le leggi razziali del ’38 furono una specie di suicidio del fascismo che accetta la sua subordinazione ideale al nazionalsocialismo e perde, quindi, la propria originalità e la propria pretesa di primato. Mussolini voleva in un certo senso costruire un modello rivoluzionario adatto ad un paese considerato di cultura superiore a quella russa e si appoggiava per questo alla critica del marxismo usuale nella Italia del suo tempo, una critica che non voleva essere un annientamento ma un superamento dialettico del pensiero di Marx.
Ci limitiamo qui comunque ad osservare in sintesi, come il tratto che unisce capitalismo, comunismo, fascismo, nazismo, sia proprio il secolarismo e la negazione dell’idea di verità . Ma l’esperimento tragico Nazista ha una durata di 12 anni, quello Marxista leninista, quello Comunista, più di 70 anni.
Quindi è forse utile soffermarsi un attimo su quest’ultimo.
Innanzitutto bisogna subito chiarire -con Augusto Del Noce- che il marxismo-leninismo come rivoluzione mondiale e totale non è fallito; si deve meglio dire che tale rivoluzione è riuscita e fallita insieme.
E’ riuscita perché effettivamente ha cambiato il mondo, determinando nell’Occidente stesso (come vedremo poi) mutamenti intellettuali e morali di enorme portata; è fallita perché ha concluso nella più gigantesca “eterogenesi dei fini” che mai si sia avuta nella storia
Già dire questo però significa aprire la riflessione, più che chiuderla. Molti, infatti, che fino a pochi anni or sono e, per ben 45 anni di seguito, hanno sostenuto che l’intera storia della filosofia andasse riscritta per restituire a Marx ed al marxismo il posto centrale nella cultura europea, oggi, come se niente fosse, considerano il dialettico di Treviri una specie di cane morto della filosofia, da relegare nella storia dell’ideologia fatta di concezioni del mondo che non hanno in realtà a che fare con la ricerca della verità.
Così molta parte dei pensatori nostrani si affrettano a riprendere il lavoro della filosofia come se si potessero mettere fra parentesi tutti quegli anni in cui il marxismo ha dominato la nostra scena culturale, considerandoli un semplice incidente di percorso.
Si rischia, forse, così facendo, di cadere però, nel medesimo errore in cui caddero quanti considerarono il fascismo un errore contro la cultura e non invece, come fu realmente, un errore della cultura.
Marxismo e filosofia di Gentile sono infatti, in forme diverse, espressioni dell’identico destino del razionalismo moderno che nella sua conclusione sbocca nel totalitarismo e si capovolge in irrazionalismo. Proprio per questo motivo, l’odierna sottovalutazione di Marx è estremamente pericolosa e coincide con una volontà di non esaminare criticamente il significato del fallimento del marxismo, per vedere quali posizioni di pensiero siano definitivamente coinvolte in questo fallimento e quali, invece, le strade che rimangono aperte ad un autentico ripensamento della cultura europea.
Negare, infatti, il concetto filosofico del marxismo e considerare Marx uno sprovveduto in filosofia, e non invece una delle menti filosofiche più potenti che mai siano esistite, capace di pensare con rigore e coerenza il principio del razionalismo moderno fino alle sue ultime conseguenze, si potrebbe solo alla condizione di espungere dalla storia della filosofia l’hegelismo.
Il razionalismo moderno che nella filosofia hegeliana trova la sua sistemazione definitiva ma percorre in diverso modo tutto il pensiero dell’Occidente dalle interpretazioni arabe di Aristotele fino ai mistici eterodossi tedeschi ed infine all’idealismo, ha alla sua origine l’affermazione della coincidenza Dio e mondo. Per esso Dio coincide con il suo agire nel mondo. Dio ed il mondo che egli crea sono un unico tutto. La Ragione è, appunto, questa presenza di Dio nel mondo che lo guida verso il suo compimento.
La Ragione allora sostituisce Dio e per dimostrare la sua divinità deve realizzarsi nella storia in modo evidente. Quindi la posizione immanentistica hegeliana può confermare se stessa solo attraverso una interpretazione della storia. Solo tramite essa sarà possibile dire se davvero nella storia la ragione si realizzi oppure no.
La critica a Hegel e le lacerazioni all’interno della scuola hegeliana, si incentrano, come noto, proprio sulle innumerevoli contraddizioni prodotte da questa ambigua indistinzione fra Dio/mondo, ragione/storia, particolare/universale.
E’ in questo contesto che si colloca la scelta politico-filosofica di Marx. Per Marx dopo Hegel un ritorno al teismo è impossibile. Occorre piuttosto proseguire e al tempo stesso, rovesciare il pensiero di Hegel riproponendo un materialismo illuministico dopo Hegel purgato però degli elementi che avevano dato occasione alla critica hegeliana.
Per spiegare la storia tale materialismo deve diventare dialettico, deve mostrare cioè come la quantità materiale sia converta in qualità spirituale, come gli interessi materiali siano la base del costituirsi degli ideali e dei valori.
Occorre mostrare sulla base di un ragionamento scientifico e non filosofico la presenza della ragione nella storia e la necessità della realizzazione in essa della compiuta emancipazione, in modo da conciliare empiricamente e non più filosoficamente ideale e reale.
Di qui una particolare caratteristica del pensiero di Marx: per un aspetto esso segna l’uscita dalla filosofia.L’unità di universale e particolare deve essere argomentata non filosoficamente ma praticamente.D’altro canto alla scienza della società è posto il compito filosofico di mostrare questa unità: essa è l’ipotesi trascendentale che guida il suo sviluppo.
L’unità inoltre, deve apparire non come il risultato di un’azione consapevolmente orientata alla giustizia, al bene, ma come effetto di una causalità interamente immanente al sistema del mondo .
Questa uscita dalla filosofia giustifica paradossalmente sia coloro che insistono nel considerare Marx come un grande filosofo ed il punto di arrivo della filosofia moderna, sia coloro che dalla filosofia vogliono escluderlo.
Il grande dialettico di Treviri è, infatti, non filosofo per motivi filosofici. Egli mostra l’esito cui il razionalismo moderno deve arrivare e la fine della filosofia è da lui decretata (XI Tesi su Feuerbach) in perfetta coscienza con lo spirito della filosofia moderna.
Le cause del fallimento del marxismo sono state ampiamente analizzate e non è nostra intenzione proseguire qui tali analisi.
La storia del mondo però rifugge lo schema ideologico in cui si sarebbe voluto rinchiuderla. La storia non ha mostrato e non mostra quel lineare o anche tortuoso cammino verso il bene che il progressismo ottocentesco dava per scontato. Il progresso può anche essere un avanzamento del cammino verso l’abisso.
Il ciclo delle guerre mondiali e l’insorgere dei totalitarismi hanno profondamente scosso l’ottimismo dogmatico dell’immanentismo etico dichiarandone il totale fallimento.
Allora il problema culturale del nostro tempo, dal quale forse tanti altri dipendono, consiste proprio nel rendersi conto esattamente del significato e della portata del crollo del comunismo.
Il problema viene in genere esorcizzato pretendendo che il comunismo sia un fenomeno orientale, asiatico, estraneo alla storia europea. Questo è assolutamente falso.
Il marxismo nasce in Germania e si sviluppa fra Londra e Parigi. Marx pensa nella lingua di Goethe e raccoglie la grande eredità del materialismo illuministico francese, dell’economia inglese oltre che dell’idealismo tedesco. Perché oggi, contro l’evidenza, non si vuole ammettere la grande forza filosofica del marxismo?
La ragione è semplice: si vuole proporre come nuova cultura dell’Europa un insieme di posizioni filosoficamente più arretrate rispetto al marxismo e che il marxismo aveva già riassunto in sé e superato.
Escludere il marxismo dalla storia della filosofia e della cultura europee è il modo di non fare i conti con i problemi che ci si aprono davanti dopo il crollo del comunismo, per non vedere quanta parte della tradizione culturale degli ultimi due secoli è implicata in questo crollo e, dopo di esso, non può più essere riproposta. La tendenza dominante è quella di retrocedere da Marx a … Marx, presentato certo in altro modo e sotto mentite spoglie.
Del marxismo si vuole abbandonare il momento rivoluzionario, mentre si vuole mantenere il materialismo, il primato del momento economico, la radicale subordinazione di tutte le sfere della vita alla struttura economica e, soprattutto, la dottrina delle ideologie.
La dottrina marxiana delle ideologie afferma che tutte le posizioni di pensiero vanno valutate non in base alla loro pretesa di verità, che in ogni caso è irrilevante visto che la verità in sé non esiste, ma solo in quanto razionalizzazioni (“derivazioni” direbbe V.Pareto) di precisi interessi di classe o di gruppo.
I marxisti cercavano di salvare, attraverso un complesso insieme di costruzioni concettuali, il marxismo stesso dalla presa di questa dottrina delle ideologie. Dopo il crollo del marxismo la dottrina delle ideologie marxista viene invece ad essere applicata in una versione più generale che include il marxismo stesso.
E’ questa versione allargata della dottrina marxista delle ideologie la vera filosofia dominante oggi in Europa, che si traveste usando per lo più un linguaggio popperiano o mutuando il gergo della antropologia culturale.
Caduta l’idea di rivoluzione (e, correlativamente, caduta l’idea di verità, sia pure nella versione deformata che permaneva nel marxismo rivoluzionario) il marxismo riformato diventa lo strumento più formidabile per la difesa dello status quo, per la difesa del potere.
Una simile ideologia soddisfa completamente le esigenze dell’antimarxismo occidentale, cioè di quell’antimarxismo che, del marxismo, temeva soprattutto il potenziale rivoluzionario.
Diverso però è il carattere della critica del marxismo pensata negli anni 80 nei paesi sottoposti al dominio del comunismo; diverso, soprattutto, è il carattere della opposizione culturale, sociale e politica in Cecoslovacchia e in Polonia. Qui non si ha paura di una possibile rivoluzione marxista. Qui si protesta contro il marxismo al potere e contro il sistema della ingiustizia sistematica e della menzogna legalizzata che esso ha instaurato e difende.
La critica etica del comunismo include più in generale quella di ogni potere oppressivo, di ogni ideologia al posto di comando. Bisogna qui essere attenti a non farsi ingannare da un uso disinvolto delle parole. Il nuovo occidentalismo o marxismo senza rivoluzione si presenta a parole come assolutamente antiideologico. contrario, la dottrina (marxista) delle ideologie che esso propugna è essenzialmente una critica delle ideologie. Da questa critica viene però eccettuata una ideologia, in modo surrettizio.
Si tratta di quella ideologia che è già incarnata nelle cose stesse, che è già oggettivata nel presente ordine del mondo. Questa ideologia non si presenta come ideologia ma come realtà. Dalla critica di tutti i valori si salvano solo i valori vitali più elementari, per di più nelle forme corrotte in cui li incontriamo in una società in decadenza: l’usura, la lussuria ed il potere.
E’ lecito allora porsi la domanda se alcuni intellettuali dell’Europa centrale ed orientale, come per esempio Palous, , Tischner, e Havel nel suo libro Il potere dei senza poterenon abbiano visto meglio e più a fondo il significato della crisi del marxismo che non i loro colleghi dell’occidente, e se essi, avendo vissuto più profondamente il comunismo, non abbiano anche più lucidamente afferrato le esigenze filosofiche, teologiche ed etiche che pone il suo effettivo superamento.
Si pone il problema se essi, a partire dal punto di osservazione privilegiato offerto loro dalla sofferenza delle loro nazioni, non abbiano imparato meglio e più a fondo la lezione della crisi del comunismo che implica in sé quella del materialismo occidentale e ne esige il superamento teorico e pratico.
In altre parole: l’oggetto primo della critica degli intellettuali indipendenti della cultura libera è stata proprio la dottrina delle ideologie e la esclusione della idea di verità.
Se questo è il nocciolo essenziale del sistema che deve essere superato, allora bisogna tornare prima di tutto a Socrate.
Nel libretto Il potere dei senza potere il verduraio di Havel aveva deciso di esporre un cartello di propaganda del regime. Lì il regime non pretende nemmeno che la vittima faccia finta di credere alla verità di quello che le è imposto di affermare. Il fine ultimo della oppressione totalitaria non è convincere della verità della propria ideologia ma piuttosto umiliare nelle coscienze l’idea di verità. Si vuole produrre il convincimento che non esiste nessuna verità per cui valga la pena di soffrire, per cui valga la pena di rischiare, per cui valga la pena di sfidare il potere. In un mondo senza verità il potere perde certo la legittimazione che gli deriva dalla pretesa di essere nel vero, ma non ne ha più bisogno. Infatti se non c’è più nessuna verità non esiste neppure nessun principio universale che giustifichi la critica dell’oppresso. Il rapporto fra oppresso ed oppressore cessa di essere un rapporto di discussione intorno alla verità, diventa un semplice rapporto di forza. La verità dell’oppresso vale tanto quanto quella dell’oppressore, è egualmente soggettiva e quindi irrilevante. E l’oppressore ha il monopolio della forza. L’atto con cui il verduraio decide di rinnegare la verità è anche l’atto con cui si consegna all’oppressore, perde il diritto di contestarlo, rinuncia all’ideale della vita nella verità.
Il verduraio di Havel in effetti espone il cartello, di cui non condivide il contenuto.
Esiste però, nell’esperienza polacca, un aneddoto uguale e contrario a quello di Havel. Ed è quello di Styczen che anche lui teso alla ricerca del Socrate del proprio tempo, propone una esperienza morale che ha un significato esemplare per un popolo e per una generazione.
Allora Socrate può diventare Kowalsky, un uomo qualunque che la storia pone davanti alla responsabilità di una difficile decisione morale. Kowalsky è recluso in una prigione. E’ recluso in una prigione perché ha vissuto l’esperienza di un incontro autentico con altri uomini ed in quell’incontro ha sperimentato una misura diversa e più vera del suo essere uomo.
Kowalsky è in prigione perché è stato un militante di Solidarnosc.
Per liberarlo gli viene chiesto di rinnegare quell’esperienza, di sottoscrivere un documento di abiura.Che fare? E’ lecito contraddire la propria coscienza? E’ dentro l’esperienza della scelta di Kowalsky che Styczen ritrova Socrate. C’è bisogno che qualcuno parli a Kowalsky di Socrate. Ce n’è bisogno perché la tentazione di cedere, per chi ha moglie e figli ed è ricattato ogni giorno sui più minuti bisogni della vita è grande.
Il Kowalsky di Styczen ricorda molto da vicino il verduraio del Il potere dei senza potere di Havel.
Il verduraio di Havel in effetti espone il cartello, di cui non condivide il contenuto.
Il Kowalsky di Styczen invece rimane nella prigione ed in tal modo conquista la sua dignità e libertà interiore. Conquista, in un certo senso, anche quello che già prima aveva vissuto, perché adesso, pagandone il prezzo, ne comprende il significato. Styczen può parlare così di Kowalsky perchè migliaia di Kowalsky in Polonia, in effetti, hanno resistito al ricatto del potere.
La difesa della vita nella verità si impone in modo vincolante, d’altro canto, a partire dal principio etico primo della critica al totalitarismo: il primato della verità sul potere ovvero il potere dei senza potere. Qui la questione filosofica fondamentale si pone nel modo più puro, perché qui l’impotenza è assoluta.
Simone Weil ha scritto una volta che la verità fugge profuga dal campo dei vincitori.
L’appello alla verità, abbiamo visto, è necessario per resistere al potere, per contestarlo, per difendere contro di esso i diritti dei senza potere. Abbiamo però anche visto in che modo, nella storia del marxismo, la convinzione della verità può trasformarsi in motivazione alla repressione dei diversamente pensanti.
L’ideale della vita nella verità, dunque, non confligge affatto con il rispetto dell’altro ma anzi lo presuppone, quando si intenda il carattere personale della verità, che non si può imporre ma chiede di essere liberamente riconosciuta da ogni singola persona umana. Solo in questo modo si compie l’incontro della persona con la verità ed anche l’incontro dell’uomo con l’altro uomo nella verità.
Nel libro di Havel il tema della verità e del rapporto fra verità e libertà è il tema politico per eccellenza. Dopo il crollo del marxismo è infatti iniziata la crisi delle democrazie occidentali. Al centro della crisi c’è il problema della alleanza fra democrazia e relativismo etico e della sua possibile sostituzione con una alleanza fra democrazia e solidarietà.
Abbiamo già visto come il potenziale democratico del relativismo etico sia limitato. Esso certo non spinge a fare la rivoluzione per instaurare un regime autoritario. La ragione non sta però nel fatto che il relativismo sia intrinsecamente democratico, ma piuttosto nel fatto che è intrinsecamente conservatore.
Negando una ragione sostanziale a cui commisurare il corso degli avvenimenti umani il relativismo giunge paradossalmente allo stesso risultato conservatore cui perviene l’interpretazione di destra della dialettica hegeliana: tutto ciò che è reale è razionale.
Tutto ciò che ha per sé la forza della fatticità ha il diritto di esistere e nessuna critica può scuoterlo, perché non esiste una verità in grado di giudicare il potere.
Meglio: il potere esistente potrà essere contestato solo da un altro potere, e fra potenti in genere si riesce sempre a trovare un accordo di spartizione delle sfere di influenza.
Il potere dei senza potere è, invece, la verità, e proprio essa deve scomparire. Da questo punto di vista Oriente ed Occidente non sono poi molto diversi fra loro. Essi convergono verso l’identico modello della vita senza verità.
Noi naturalmente non sottovalutiamo affatto le grandissime differenze che esistevano fra il tardo comunismo e le democrazie occidentali, differenze che possono significare vita o morte per interi larghissimi ceti sociali. Né, d’altro canto, diciamo che le democrazie occidentali hanno fatto proprio incondizionatamente il modello della vita senza verità. La questione, piuttosto, è aperta in Oriente come in Occidente.
Diciamo però che le elite culturali dell’Occidente, che difendono il relativismo assoluto, teorizzano in forma raffinata quello che il tardo comunismo cercava di realizzare in una forma brutale.
Non è un caso, del resto, che quelle medesime èlites difendessero un programma politico che mirava non alla caduta del comunismo ma piuttosto alla convergenza fra comunismo e capitalismo in una società tecnologica in cui fosse appunto estinta l’idea di verità.
Il tema della verità si incontra qui con quello dell’Europa.
I paesi dell’Europa centrale e orientale sono stati a lungo separati dall’Europa.
A isolare la cultura polacca, ceca ecc., soprattutto la cultura non inquadrata ed ufficiale, non era tanto il regime quanto il fatto che i paesi dell’est non erano di moda nei circoli culturali dell’Occidente. Se ne parlava con imbarazzo. Essi contraddicevano l’ipotesi dominante nei salotti culturali sulla necessaria evoluzione del comunismo verso la democrazia e l’obbligatorio progressismo degli intellettuali occidentali.
Questo, d’altro canto, rendeva più attenti e più critici gli intellettuali di quei paesi. Li aiutava a discriminare. L’idea di Europa che li alimentava, non coincideva con quella dei circoli dominanti dell’Occidente.
Quella polacca o ceca era un’Europa che iniziava con Socrate, quella occidentale aveva già buttato nel bidone della spazzatura Socrate insieme con l’idea di verità.
I polacchi e cechi allora secondo tale cultura, devono diventare europei e cioè devono assimilare il percorso culturale dell’Europa Occidentale in questi ultimi decenni. Devono, in altre parole, associarsi al processo che conduce alla morte o al suicidio spirituale dell’Europa. Finisce l’Europa e trionfa l’Occidente, inteso in senso etimologico come terra del tramonto, in cui si smorzano e si spengono tutte le identità e tramontano tutti i valori.
La condizione prima per assimilarsi all’Occidente era allora dimenticare Solidarnosc, dimenticare l’esperienza della resistenza al totalitarismo comunista.
Alla luce dei risultati cui siamo pervenuti sembrerebbe allora, per lo meno, che il relativismo occidentale in quanto filosofia non rivoluzionaria debba avere una funzione di stabilizzazione dei regimi democratici. In quanto forza conservatrice dell’esistente può almeno avere un effetto positivo quando l’esistente è democratico. La falsità di questa deduzione è ben nota a tutti coloro che hanno intrapreso il tentativo di fondare una democrazia. Lasciamo da parte la rivoluzione francesee consideriamo piuttosto la rivoluzione americana del 1776 e poi il grande commento alla Costituzione offerto dai Federalist Papers oppure le osservazioni del Tocqueville nella sua Democrazia in America.
Sempre di nuovo ritorna il tema della virtù come presupposto necessario della esistenza della Repubblica.
All’opposto esiste una lunga tradizione di critica alla democrazia che sbaglieremmo a passare sotto silenzio. Da Platone a De Maistre i critici della democrazia hanno messo in evidenza sempre di nuovo che la democrazia inclina ad allearsi con il relativismo etico, anzi hanno considerato come inevitabile quella alleanza o hanno incorporato il relativismo etico nella essenza delle democrazie.
La conseguenza necessaria, ci dice Platone, è la caduta di un giusto principio di autorità dello stato e delle leggi.
Se non esistono verità oggettive il rapporto fra gli eletti e gli elettori ovvero fra i governanti ed i governati è fondato sulle fragili basi di un consenso che deriva non da un accordo sulla verità ma da un compromesso di interessi.
Nulla allora impedisce a chi la ha conseguita di usare l’autorità pubblica al servizio di interessi privati per costituirsi un partito, o meglio una fazione che lo appoggi. I favori concessi a spese del bene comune (e del bilancio pubblico) devono naturalmente essere pagati e per lo più sono pagati in contanti. L’uomo politico ammassa così una enorme quantità di denaro, che userà per comprare i voti che gli servono per essere rieletto. Tutte le cariche pubbliche, le decisioni politiche, le sentenze delle corti giudiziarie verranno alla fine liberamente comprate e vendute. Il prestigio delle cariche pubbliche e l’autorità dello stato verranno trascinati nel fango.
Se non esiste alcuna distinzione oggettiva del bene e del male le persone oneste si ritireranno dalla vita pubblica e lo scontro delle ambizioni sfrenate dei singoli partiti condurrà alla guerra civile. Alla fine un capopopolo più forte o più spregiudicato imporrà il suo dominio ed abolirà le istituzioni democratiche senza che alcuno le difenda a causa del discredito in cui sono cadute.
Avviene così la transizione dalla democrazia alla tirannide. Abbiamo tratto le linee principali di questa descrizione dai libri 8 e 9 della Repubblica di Platone.
Avremmo però egualmente bene potuto prenderle dalle Letterein cui Cicerone la crisi della democrazia romana o anche, ahinoi, dai giornali italiani di questi tempi (ma non è che altri paesi stiano molto meglio).
Per cercare di ovviare a tale degenerazione la tradizione classica ha opposto al modello democratico puro l’ideale del “governo misto”, in cui il principio democratico, quello monarchico e quello aristocratico fossero contemperati fra loro in modo tale da impedire la degenerazione di ciascuno di essi.
La democrazia moderna nasce proprio sulla scia della tradizione del governo misto (si pensi soltanto alla divisione dei poteri in cui il potere legislativo ha un carattere democratico, quello esecutivo uno monarchico e quello giudiziario uno aristocratico).
Il meccanismo della rappresentanza, così strutturato, presuppone l’idea di verità ed ha la funzione di impedire che tale idea sia travolta dalla corruzione. Il giudice deve essere indipendente proprio perché la verità non è fatta dalla volontà del popoloe quindi il popolo agisce in modo saggio non pretendendo di decidere della verità ma designando uomini saggi e retti che, sottratti ad ogni pressione, possano investigare la verità delle cose ed esprimerla nelle loro sentenze. ( magari le cose andassero veramente così).
Questo spirito della democrazia dei moderni, che è lo spirito delle nostre Costituzioni, oggi è in crisi davanti all’assalto del relativismo.
Si propone di passare dalla democrazia ancorata ad un insieme di valori generalmente riconosciuti e capaci di ispirare l’azione politica, ad una democrazia che considera tutti i valori come proiezione di desideri, istinti e interessi soggettivi e manca quindi di qualunque preciso punto di riferimento etico.
In una simile democrazia non esistono più valorima solo interessi,non esiste più dibattito intorno alla verità ma solo compromesso di interessi confliggenti sulla base della loro forza contrattuale. Questa democrazia rischia di smantellare tutte le difese che hanno permesso all’esperimento democratico di durare così a lungo negli Stati Uniti e poi anche nei paesi dell’Europa occidentale.
La ragione prima delle difficoltà è una antropologia insufficiente che non ha compreso il legame costitutivo di libertà e verità.
Alla luce di questo legame è possibile vincolare il metodo democratico ai valori permanenti della persona umana e proteggere la democrazia contro la decadenza nella corruzione che apre infine il cammino ad una nuova tirannide. I temi che abbiamo cercato di introdurre meritano forse di essere approfonditi se si vuole davvero acquisire coscienza critica del difficile passato dell’Europa per evitare di ripeterlo.
La non sottovalutazione filosofico-politica di Marx e del marxismo-leninismo è allora estremamente importante e non può non coincidere con una rinnovata volontà di esaminare criticamente il significato del fallimento del marxismo, per vedere quali posizioni di pensiero siano definitivamente coinvolte in questo fallimento e quali, invece, le strade che rimangono aperte ad un autentico ripensamento della cultura europea.
La questione del potere dei senza potere, cioè la questione della verità, è allora questione politica.