Oscuro, anzi oscurato dalla critica d’ arte, Giuseppe Mozzanica si afferma sempre di più oggi a trent’anni dalla morte (1983). Perché? La sua storia, in due parole, è questa.
Nato in un borgo della Brianza, Sabbioncello di Merate, nel 1892 da una famiglia di contadini, ben presto cominciò a frequentare la scuola domenicale di disegno e ornato in Merate. Decise poi di iscriversi alla scuola di plastica del Castello Sforzesco di Milano. Tutto ciò non gli è facile: il papà lo voleva con sé in campagna e indusse il capostazione di Merate ad impedire a Giuseppe di prendere i treni per Milano. Così Mozzanica se ne andava in bicicletta da Merate a Milano e terminò brillantemente il corso di plastica nel 1916, vincendo anche un premio di 200 lire. Fu poi militare e combatté in prima linea per sei mesi nell’orribile strage che fu la prima guerra mondiale: di essa non parlò mai, ma le atrocità le umiliazioni e gli orrori della carneficina saranno affidati ai numerosi monumenti ai caduti, al dolente senso della morte, pur redenta da Cristo, dei molti monumenti cimiteriali per lo più nella zona di Lecco, ma anche al Monumentale di Milano.
Dopo la guerra il Nostro si iscrisse all’Accademia di Brera dove ebbe maestro il Graziosi: metà giornata di studio e metà di lavoro per mantenersi, presso la ditta di lavori cementizi e stucchi Castiglioni. La ditta gli pagava l’intera giornata, riconoscendo il talento del giovane e dando prova di quella generosità intelligente che molti imprenditori dimostravano in quei tempi. Vien qui da ripensare a un detto famoso del Palladio: “L’architetto è un muratore che ha studiato il latino”…
Giuseppe Mozzanica mostra subito una sua via artistica in mezzo ai clamori del futurismo, delle avanguardie, del costruttivismo, del surrealismo, dell’arte frettolosa del Novecento, specie negli anni Trenta. Partecipa a vari concorsi e mostre importanti fra cui le biennali di Venezia del 1926 e del 1930, dove espone una “testa di fanciullo”.
In quegli anni partecipò alla mostra del sindacato di Como e due opere (due teste di ragazzi, in bronzo) vennero acquistate dal sindacato fascista delle Belle Arti di Como… Dunque Mozzanica simpatizzante, sostenitore del fascismo? No, questo non appare mai: lo scultore visse semplicemente in mezzo al suo tempo, con il desiderio di una bellezza perfetta, di tipo greco-romano e poi rinascimentale. Sobrio nell’offrire i suoi doni si avvaleva dei canali ufficiali come facevano tutti. Ma la sua poetica classicista lo pose in disparte da ciò che faceva moda nel ventennio… Più tardi, infastidito dalla prosopopea dei salotti e della critica ufficiale, si ripropose di non esporre più in queste collettive borghesi e piene di vanagloria. Ma l’aver lavorato con un certo successo sotto il fascismo ed in spazi ufficiali gli valse quell’oscuramento della fama e della critica cui si è accennato sopra.
Anche la partecipazione al concorso per lo stadio dei marmi a Roma (oggi il Foro Italico) fu fortunosa. Il suo mirabile Calciatore come pure il Vogatore con cui vinse i concorsi delle province di Como e Sondrio ebbero una sorte iniqua. Il vogatore, così come il calciatore, furono “riadattati” secondo i canoni dell’arte di regime per maneggi di artisti compromessi con il regime. Basti pensare che su sessanta statue abbiamo solo ventisei autori e diciassette statue portano il nome di un solo autore, mentre ogni statua doveva essere la vincitrice di concorsi provinciali. Ma a tanto spinge la brama di essere celebrati, brama che non sfiorò mai Mozzanica. Nel 1933 il Calciatore, firmato da un altro autore, divenne l’emblema del Duce sui francobolli dedicati ai Giochi Internazionali di Torino! Si sarà sdegnato con tutti e con tutto il Nostro? Certamente dopo la guerra pronunciò un giudizio inappellabile e molto amaro: “Il Novecento fa ribrezzo: prima tutti fascisti, adesso tutti comunisti o socialisti”…
Tanta amarezza spinse Mozzanica ad un vita sobria, quasi monastica, ma egli non diminuì mai il suo desiderio né la sua abilità che sempre esercitava cercando soluzioni nuove, maturando anzi sino in tarda età.
“Chi fa da sé fa per tre”: questo antico adagio popolare (un po’ “antidemocratico!”) si addice bene a G. Mozzanica. Egli faceva tutto da solo e diresse la sua opera in senso didattico ed educativo: nel 1959 infatti aprì una gipsoteca, la sua gipsoteca, per conservare gelosamente nell’incanto del bianco del gesso molti modelli della sua vasta opera scultorea: normalmente prima della copia in marmo c’è il modello in gesso. Egli faceva da sé anche gli strumenti: raspe, trapani, martelli. Inventò una macchina girevole per osservare il modello secondo tutti i quarti di luce e le infinite angolature. Sempre per una fedeltà a una realtà effettuale. Ma non era un inseguitore di una bellezza documentaria: la documentava perché essa parlasse di sé stessa con metafore. Il linguaggio metaforico essenziale di cui si serviva l’artista era la fotografia. Abbiamo duecento lastre e trecento foto realizzate la più parte dal fotografo professionista Giuseppe Pini durante una trentennale amicizia con lo scultore. Mozzanica predisponeva tutto, Pini scattava. E ciò per immortalare nel superbo bianco e nero delle lastre come pure delle stampe il candore e i giochi di chiaroscuro di un’opera delicata come un modello in gesso che subito, anche solo spostandolo, in qualche modo si corrompe.
La gipsoteca è il cuore dell’opera di Mozzanica: tanto ci tenne e tanto ci tengono oggi i figli che ne hanno curato la recente risistemazione. E’ il luogo del concepire e partorire le opere e conserva il fascino e il calore di una vita familiare intensa. I bronzi, le terrecotte, i marmi vengono successivamente: il profumo dell’arte bambina rimane nel candore dei gessi.
Dalla mente e dal cuore uscivano gli impulsi dell’artista che si trasferivano subito alle mani e a quel prolungamento delle mani che erano gli strumenti anch’essi usciti dalle stesse mani. Quasi un’ immediatezza. Infatti non ci sono quasi disegni: l’autore non prepara schizzi, passa direttamente dall’occhio alla mano con quell’aiuto della macchina fotografica che imita l’occhio — la più “perfetta macchina fotografica”. Nelle numerosissime fotografie si ha un metalinguaggio: l’arte racconta di se stessa mediante un scatto che fissa eppur lascia immaginare tutte le altre angolature. Con l’immaginazione il bello scende nel cuore…
Ma chi erano le modelle e i modelli di Mozzanica? Gente di campagna e poi operai che posavano anche quattro ore filate per arrotondare i poveri guadagni. Non dunque modelli di professione: corpi segnati dalla vita quotidiana di fatica e lavoro. Le loro espressioni restano anche se vengono rese più autentiche (e con l’arte si può) nel rivelare il loro valore umano per mezzo degli occhi e delle mani dell’autore.
Con L’Aurora, con La bagnante sorpresa, con El Sciurett e le teste di bambini e giovinetti ci viene incontro il mondo in una percezione insieme dolente e grata per il dono della vita.
Nessuna celebrazione retorica della guerra: fosse il nemico o fosse italiano, il giovane morente, spesso ignudo e con le armi dismesse, è solo un umiliato e uno sconfitto. Così fatti sono quasi tutti i monumenti ai caduti della prima guerra mondiale: nulla poté il regime per imporre al Mozzanica di cambiare questo dolente verismo.
Bellissime sono anche le sculture funerarie: è arte sepolta coi sepolti? Certo bisogna andare a cercare nei cimiteri di Lecco e dintorni. Mozzanica vi lavorò negli anni Trenta e Quaranta, ma del 1969 è l’ immagine del più intenso dolore: tomba Campili, ragazza seduta. Vi è poi la ragazza in peplo, statua di marmo bianco: essa si curva dolcemente a deporre fiori sulla tomba del defunto: tomba Colombo del 1937. Vi è poi un’ intensa Pietà sulla facciata della chiesa cimiteriale di Uggiate Trevano progettata dai fratelli Terragni. Molto senso dell’uomo, ma anche coscienza dell’Uomo-Dio: se i temi non sono a maggioranza di contenuto religioso, tutte le opere di Mozzanica sono una contemplazione dolente e religiosa dell’avventura umana.
E’ forse la grandezza dei grandi che si afferma spesso dopo la loro morte. Andiamo allora a fare una gita fuori porta per vedere e contemplare pensosi le opere della gipsoteca di Pagnano di Merate, oggi appena restaurata; respiriamo l’aria di quei colli e ripensiamo alla durata della nostra vita: il durare e il perdurare dell’ espressione delle passioni umane vissute in sobrietà, riconoscenti alla vita ricevuta e insegnataci dai classici che ridanno agli occhi tutto ciò che il cuore ha presente.