Ogni etichetta storica è un tentativo, più o meno riuscito, di strappare il segreto e l’essenza di un’epoca, e di raccontarlo per così dire in una sola parola. Si tratta di periodizzazioni sempre un po’ problematiche o arbitrarie, perché enfatizzano alcuni fattori e ne tralasciano altri, che magari renderebbero il quadro più complesso, e anche più interessante. Ma sono anche tentativi di guardare e valutare il tempo del mondo nella sua specifica qualità: il tempo “storico” infatti non può essere semplicemente misurato, ma va pensato e interpretato come il luogo e il veicolo del senso.
Tra le etichette più affascinanti, e polimorfe, per comprendere la cultura di un’epoca vi è senza dubbio quella di “Barocco”. Si tratta di una denominazione usata soprattutto per la storia dell’arte, della musica, della letteratura — nel contesto politico e religioso tra il XVII e il XVIII secolo — come un vero e proprio “stile”, flesso e riflesso nelle “pieghe” di teorie e di pratiche che rappresentano i fasti di una visione gloriosa, e al tempo stesso umbratile, della ragione umana e della fede divina, del posto dell’uomo al centro dell’universo e della sua dispersione nella potenza della natura.
Ma che tipo di pensiero è il pensiero dell’età barocca? È possibile individuarne dei tratti caratteristici, al di là del riferimento ad un contesto politico-religioso istituzionale o dell’analogia con le arti? Più precisamente: esiste una filosofia barocca? L’ipotesi che si potrebbe avanzare è che la sua specificità — se mai ci sia — è quella di essere un “campo di forze” in cui entrano in tensione reciproca, e perciò stesso si tengono tra loro, fenomeni e tendenze spesso concorrenti, se non conflittuali: la filosofia scolastica insieme con la filosofia moderna, la teologia cattolica insieme con la teologia riformata, il pensiero europeo continentale insieme con la scolastica coloniale.
Attraversando questo campo di forze convergenti e insieme divergenti nel concetto di “barocco” troviamo per esempio una riformulazione sistematica del rapporto tra teologia e filosofia, a partire dai nuovi compiti segnati dal Concilio di Trento (concluso nel 1563) e che vede come protagonisti soprattutto dei giovani gesuiti iberici che tentano di sanare la frattura tra ragione e rivelazione o tra natura e sopranatura avvenuta con la Riforma protestante. E che poi paradossalmente diventeranno punto di riferimento per lo stesso mondo accademico protestante.
Ma il rapporto tra scienza metafisica e teologia si allargherà ad un più vasto spirito di “sistema”, a quelle “Enciclopedie” del sapere edificate su basi logiche (Lullo, Ramo, Alsted) in cui troveranno spazio nuove discipline come la psicologia, l’antropologia e la stessa “ontologia” (termine che appare solo nel 1606).
Come pure fa parte del genio barocco anche una segreta, inaspettata continuità tra il lessico “ontologico” della scolastica e quello dei sistemi dei filosofi “moderni” (da Cartesio a Spinoza, da Leibniz a Locke, fino a Kant e Hegel): una continuità che non annulla l’inevitabile rottura tra le due sponde, ma anzi fa capire di più la natura della loro discontinuità.
Infine non si può non accennare al fatto che il pensiero barocco segna il rapporto tra il Vecchio e il Nuovo Mondo d’oltreoceano con la diffusione del pensiero scolastico (attraverso le istituzioni ecclesiastiche e in particolare i “Collegi” dei gesuiti e degli altri ordini religiosi) nelle terre americane, al punto che si può parlare di una vera e propria “Scolastica coloniale” in Argentina, Brasile, Cile o Perù, che ha tentato significativi sviluppi nell’àmbito dell’antropologia, della logica e del diritto.
Il convegno internazionale che comincia oggi all’Università di Bari cercherà di sondare queste prospettive e rispondere alla domanda se vi sia in effetti un “pensiero barocco”. Ma se ci sarà, dovrà essere pensato più come un crocevia che come una delimitazione: un orizzonte aperto che vive delle sue stesse irrisolte tensioni.