Ai tempi degli dei dell’Olimpo, i titani erano divinità minori con un alto senso dell’onore che, spodestati da Zeus e compagni, osarono tentare di riprendersi il potere. Pensavano forse di poter battere gli dei? No, ma era giusto provarci. La lotta titanica è una ribellione disperata contro un avversario più potente; destinata alla sconfitta, ma ugualmente intrapresa per amor di verità e/o giustizia. La ribellione del titano è una causa persa in partenza, ma ciò non lo rende meno glorioso. Tutt’altro: egli è colui che combatte per l’ideale puro, sapendo per certo di avere tutto da perdere e nulla da guadagnare. Il titanismo è l’antitesi dell’opportunismo.



Anche Prometeo era un titano. Era lui ad aver creato gli uomini, ai quali aveva insegnato ogni arte. Nel Prometeo incatenato, Eschilo ha parole bellissime per come egli insegnò agli uomini a superare se stessi, impedendo loro di rimanere focalizzati sui loro limiti da mortali (v. 250) e donando loro nuove speranze su ciò che non potevano vedere (v. 252). Regalò loro, cioè, lo sguardo sull’Assoluto, sul Divino.



Quando Zeus, in seguito a una disputa con lui, privò gli uomini del fuoco, Prometeo andò sull’Olimpo a rubarlo per loro. Parliamo sia del fuoco materiale, naturalmente, sia del fuoco simbolico degli dei, quel qualcosa in più che l’uomo ha rispetto a tutte le creature.

Da bravo titano, sapeva benissimo che l’avrebbe pagata cara, poiché non è possibile ingannare un dio e pensare di farla franca. Infatti Zeus lo seppe subito e la sua vendetta fu tremenda: lo fece incatenare a una rupe dove ogni giorno un rapace gli divorava il fegato che nottetempo si rigenerava, rendendo così infinito il suo supplizio.  

Alcuni, tra i moderni, hanno paragonato la figura di Prometeo a quella di Cristo, in quanto entrambi affrontarono atroci tormenti per amore del genere umano. Dimenticano, però, che Prometeo e tutti i titani sono il prototipo della giusta disobbedienza contro una divinità crudele e tirannica, mentre Cristo è l’incarnazione dell’obbedienza totale al Dio infinitamente buono che, sacrificando il Figlio, sacrificò anche se stesso.

Il punto è proprio questo: i titani erano gli eroi di un mondo governato da dei “falsi e bugiardi”: fallibili, meschini, crudeli, prepotenti. Ammirarli equivaleva a urlare in protesta contro un Fato avverso, ergersi coraggiosamente e disperatamente contro la cieca Ananke.

In ambito giudaico e cristiano, invece, essendo Dio il Sommo Bene, la ribellione contro di lui è un atto diabolico. Va da sé che gli eroi titanici dei tempi moderni riflettano un’immagine di Dio lontanissima da quel cristianesimo di cui, paradossalmente, sono frutto.

Non a caso, la lotta titanica è tipica del preromanticismo (soprattutto tedesco e inglese), affascinato da tutto ciò che è passionale, spaventato da tutto ciò che è istituzionale, Chiesa compresa; l’idea di un Dio provvido e amorevole era intanto stata messa ampiamente in discussione, prima dal protestantesimo, poi dall’illuminismo.

Il grande precursore del titanismo moderno venne, però qualche anno prima: parliamo di John Milton (1608-1674) e del suo Paradiso Perduto. In un breve passo del primo libro, infatti (che è poi l’unico passo del grande poema a essere ancora universalmente citato), Satana, che è appena stato scaraventato giù dal Paradiso, raduna di nuovo i suoi e con una meravigliosa orazione li convince che vale la pena di lottare anche essendo certi della sconfitta; chiude il discorso con il suo famoso “Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso” (v. 263). Dio non è migliore di lui, né più intelligente, ma solo più forte in quanto, esattamente come Zeus, può disporre del potere dei fulmini. 

Milton, tuttavia, non era un satanista; non consciamente, almeno. Infatti il suo Satana si trasforma presto in un essere repellente, un vero mostro. Anche solo per una pagina, però, il poeta pare essersi identificato, almeno parzialmente, con l’arcangelo ribelle. Forse perché la sua situazione personale era vagamente simile, giacché la restaurazione della monarchia in Inghilterra aveva significato per lui, ormai anziano, povero, cieco e solo, il crollo di tutti gli ideali. Per questo è strano che il Dio del Paradiso Perduto sia raffigurato, da un autore che aveva accoratamente giustificato il regicidio del 1649, come un “re”.

Dell’ambiguità di Milton si accorse, ancora, non a caso, il preromantico William Blake e ne fece un cavallo di battaglia: l’anello della catena, il ponte tra Prometeo e Satana, era ormai pronto.

(1 – continua)