Anni fa un’amica americana mi consigliò di leggere Jhumpa Lahiri, sapendo della mia passione per i racconti. All’epoca l’autrice aveva già vinto il Pulitzer Prize for Fiction (2000) con l’intenso Interpreter of Maladies (it. L’interprete dei malanni) e aveva anche già scritto il suo primo romanzo (The namesake, 2003) diventato poi un film di successo, ma in Italia pochi la conoscevano.
Adesso Lahiri è ben conosciuta anche qui, forse perché è il paese dove vive e, a giudicare dalle sue interviste, il posto in cui ha trovato una centratura nella sua vita da figlia di emigrati. Perché Lahiri è nata a Londra da genitori bengalesi, ed è cresciuta nel Rhode Island (Usa). Non si sente completamente indiana ma neanche del tutto americana, in Italia l’ha spinta la sua passione per la lingua, che ha iniziato a studiare vent’anni fa. Una persona senza una forte appartenenza, come lei stessa ammette, ma interprete delle diverse suggestioni culturali e linguistiche. E, a proposito di interpreti, il divario tra i due mondi che convivono in Lahiri trova una magnifica rappresentazione proprio nell’Interpreter of Maladies, racconto che dà il nome alla sua prima raccolta.
La storia narra della visita al Tempio del Sole di Konarak (India orientale) da parte di una famiglia di americani di origine indiana, i giovani coniugi Das, con i tre figli al seguito. Il personaggio attorno al quale ruota la vicenda è Mr. Kapasi, autista e guida della famiglia Das: mediatore internazionale mancato, per mantenere moglie e figli ripiega a fare l’interprete presso lo studio di un medico, grazie alla sua conoscenza del dialetto Gujarati, oltre a prestarsi come autista per turisti. Il lavoro di interprete è visto da sua moglie con una sorta di risentimento ed è per questo che l’interessamento della signora Das provoca in Kapasi un repentino moto di autostima. La giovane Das, inizialmente seccata dalla gita in sé e dunque sgradevole con marito e figli, trova molto interessante la funzione di tramite di Kapasi nel suo lavoro, che il pover’uomo (male) interpreta come interesse personale al punto da fantasticare di un eventuale rapporto futuro fatto di scambi di lettere e consuetudine. Ai suoi occhi abituati a vedere turisti inglesi o irlandesi, i coniugi Das sono indiani solo nell’aspetto, parlano come gli attori della serie televisiva Dallas e si comportano come fratello e sorella in gita con i tre fratelli minori. Raj, insegnante alle medie, non vede l’ovvio, impegnato ad armeggiare con la sua macchina fotografica e a leggere la guida sull’India. Mina dimostra la sua immaturità laccandosi le unghie e mangiando riso soffiato, durante il tragitto, fino a quando non intravede in Kapasi la sua ancora di salvezza, il tramite attraverso il quale liberarsi del suo peso.
E così, approfittando di un momento di solitudine con l’uomo, gli rivela che Bobby, il suo secondogenito, non è figlio del marito. Al disorientamento e al disgusto ben celato dell’uomo, Mina risponde guidata dal suo cieco egoismo: “Otto anni, Mr. Kapasi, ho sofferto per otto anni. Speravo che lei mi aiutasse a stare meglio dicendo la cosa giusta, suggerendo un qualche rimedio”.
In un solo attimo Mina distrugge la sua immagine agli occhi dell’uomo e il di lui fugace momento di riscatto: attraverso di lei si era visto migliore, almeno per un momento; dopo, si sente svuotato della sua caduca stima, inutile recipiente di una triviale confessione.
Mina e Kapasi sono portatori di un significato narrativo che non solo li classifica all’interno della narrazione (l’autista, la moglie) ma li rende simbolici di uno status quo che prende forma sotto gli occhi del lettore man mano che il racconto procede. Da una parte Mr. Kapasi, nato, cresciuto e rimasto (suo malgrado) nella tradizione che, in un certo senso, non lo ha favorito; dall’altra Mina, la “finta” indiana figlia di una cultura diversa, che pur capendo il valore di un lavoro insolito, ipotizza delle aspettative irrealistiche per lavarsi la coscienza.
Nella raccolta di racconti Unaccustomed Earth (2008), balzato al primo posto nella classifica dei best seller del New York Times appena dopo la pubblicazione, Lahiri è ben riuscita a descrivere le diverse esperienze dei figli degli emigrati, di seconda e terza generazione, che si dipanano tra la nuova libertà e l’incertezza del nuovo, collegate da un comune spaesamento in cui gioie e dolori sono vissuti con ambivalenza.
Il divario di cui Lahiri parla, soprattutto nelle storie di emigrati, non si palesa solo nelle ovvie differenze di usi e costumi ma nella prospettiva e nelle aspettative dei diversi protagonisti, con risultati talvolta laceranti. L’attaccamento talora spasmodico a certe tradizioni rassicura gli emigrati sulla propria identità, garanzia di cui i loro figli non sempre hanno bisogno poiché si cibano anche delle tradizioni acquisite, che mitigano il senso di disadattamento.
La difficoltà di adattarsi al “nuovo” mondo Lahiri lo ha vissuto sulla propria pelle a iniziare dal suo nome, che sarebbe Nilanjana Sudeshna se non fosse stato per le difficoltà degli americani a pronunciarlo. O dall’abitudine di sua madre a pettinarla e vestirla testardamente all’indiana, quella madre che tuttora vive nel Rhode Island come se fosse a Calcutta. O dalla lotta familiare sull’uso della lingua americana, quando in casa si doveva parlare solo bengalese.
La capacità di Lahiri nella sua opera di disvelamento sta nel far vivere al lettore situazioni emotive diverse pur scrivendo di temi ricorrenti, posando lo sguardo nelle pieghe di certe anime sospese in un limbo esistenziale irrisolvibile.