Il messaggio di Papa Francesco per la giornata mondiale della pace non parla affatto di conflitti militari, che pur ci sono e sui quali gli interventi non sono mancati. Anziché redigere le attese esortazioni alla deposizione delle armi ed alla cessazione dei conflitti, il discorso del Papa fa rotta verso la denuncia delle radici del male. Quel male radicale che fa di ogni guerra lo sbocco naturale, ancorché evitabile, di un lungo percorso di mancato riconoscimento dell’umano. 



Il discorso di Papa Francesco diviene allora un elenco tristemente accurato delle assenze e dei mancati riconoscimenti dell’altro, con tutte le forme di asservimento e di oppressione che ne conseguono. Il problema della pace mancata, della “guerra a puntate”, con tutto il suo carico di tragedie epocali — si pensi ad una realtà come quella dei campi profughi — ha le sue radici in un peccato radicale e originario che gli preesiste e che è costituito dalla mancanza di giustizia e dalla mancanza di carità. Il peccato originale è quindi quello di un’umanità mancata, di un’umanità che tradisce se stessa, proprio nel momento in cui giustizia e carità sbiadiscono come semplici figure retoriche. Senza giustizia né carità si può anche credere di essere normali quando in realtà si è deformi, alienati da sé stessi, da ciò che si sarebbe dovuti essere.



Ora tutto ciò sembra prodursi nell’indifferenza generale, fino a registrare una vera e propria “globalizzazione dell’indifferenza”. Una tale indifferenza non si produce solo al livello dell’uomo della strada, ma anche al livello delle istituzioni. La nota risposta di Caino “sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4, 1-16) continua a risuonare ancora oggi. La scelta di Papa Francesco di nominare il male ed elencare l’albo degli orrori rivela qui tutta la sua volontà pedagogica.

In effetti, rispondere come Caino appare oggi tanto più paradossale e ipocrita quanto più una tale risposta è pronunciata in una società della comunicazione in cui tutti sanno tutto e ben poco sfugge al presentimento personale di come realmente stiano le cose. In effetti ben pochi possono certificare di non sapere nulla delle nefandezze della criminalità organizzata, dei minori che “sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto degli organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale”. Letti uno per uno, i mali denunciati da Papa Francesco sono altrettante provocazioni alla nostra buona coscienza e rendono meschina e penosa qualsiasi riedizione della risposta di Caino.



Il problema è allora ben più grave della semplice indifferenza e l’elenco delle piaghe, presentate qui con crudo realismo, non fa che far emergere il vero ostacolo a qualsiasi impegno di fratellanza, di carità e di giustizia: quello costituito da un disincanto morale, da una valutazione rassegnata della realtà, da una pervicace e diffusa convinzione di non poter far nulla, di essere dinanzi ad un male di un’estensione tale da non poter fare altro che barricarsi nei propri condomini e cambiare canale. L’idea che bisogna accettare il male, la corruzione, la competizione di tutti contro tutti, la perdita dei deboli per strada, la continua sconfitta di ogni decenza e di ogni innocenza, così come si accettano la nebbia a novembre o la neve a febbraio, impera effettivamente come luogo comune. In un mondo dove si è costantemente informati e “connessi” lo spettacolo del male e del dolore si può ignorare solo alla luce di un disincantato realismo: vero e proprio maestro diabolico post-moderno che ci libera la coscienza.

Proprio per questo l’elenco brutale e inclemente di Papa Francesco, la sua relazione impietosa sul male chiamato per nome, precisato nelle forme, indicato nei responsabili è straordinariamente efficace. Occorre una robusta dose di cinico disincanto per leggere tutto lo sconcertante rapporto del Santo Padre e restare confermati nel proprio giudizio di una giustizia impossibile da conseguire e di una carità irrealizzabile se non ai margini, nelle forme del semplice volontariato che raccolga i feriti e curi le piaghe, ma che non possa minimamente impedire la guerra, cioè le aggressioni, le soperchierie, le nefandezze e le scelleratezze di una trivialità quotidiana che distrugge ogni innocenza e infanga il volto buono del Figlio di Dio.

Ovviamente l’informazione e la sensibilizzazione non bastano. Occorre un rispetto radicale dell’altro che nasce nel riconoscimento della paternità comune: si comincia col riconoscersi figli dello stesso padre ed è questa la condizione essenziale per quella “globalizzazione della fraternità” che deve essere più forte della “globalizzazione dell’indifferenza” che così bene ci caratterizza. Una fraternità che deve invadere lo stesso territorio nel quale regna la noncuranza: nell’universo quotidiano ordinario, là dove il male sembra sempre trovarci soli, senza mai nessuno accanto. Comincia da qui, da questo recupero dei “piccoli gesti quotidiani” l’edificazione di quell’universo di carità e di giustizia diffusa che costituisce l’unico vero deterrente per qualsiasi conflitto.

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