Il compleanno del Papa (settantotto anni) entra di schianto nelle giornate frenetiche che precedono il Natale e aprono la Novena che la Chiesa celebra nell’imminente nascita del Salvatore. Papa Francesco non si può riassumere in un concetto o celebrare con uno scritto: l’essenza della sua presenza nel mondo sta in quel “miserando atque eligendo” che è il motto del suo episcopato e che Beda il Venerabile, autore della citazione, usa per descrivere il modo con cui Gesù vide il pubblicano Levi seduto al banco delle imposte, ossia con uno sguardo pieno di misericordia e di preferenza al di là di quello che aveva o poteva aver fatto, con una gratuità spesso impossibile anche fra amici, fra genitori e figli, fra marito e moglie.
Eppure è di questo spiazzante sguardo che il nostro tempo ha bisogno. Pochi giorni fa una liceale del primo anno ha alzato la mano in una mia classe per dire che non era poi così convinta che le cose esistessero. Se la realtà non esiste più, se le cose non sono più capaci di persuaderci della loro esistenza, che cosa rimane dunque? I nostri ragazzi, ma anche noi, siamo distanti anni luce dalla vita reale, costretti alla prigionia dalla mente, una mente che ci fa vivere — in poche parole — di pensieri, di emozioni e di velocità. Il passato, infatti, ci tormenta con i suoi conti in sospeso, il futuro ci assilla con le sue promesse e le sue minacce, i fatti e le persone suscitano in noi impulsiva eccitazione o amarezza profonda, mentre le circostanze ci passano davanti alla velocità della luce senza la possibilità di trattenere niente, di farne davvero esperienza. Sradicati dal nostro presente, non abbiamo più la possibilità di incontrare ciò che è altro da noi, il diverso, e di permettere che questo incontro ci cambi, destabilizzando il nocciolo duro della nostra persona, del nostro Io.
Ma, allora, qual è il rimedio a tutto ciò? Come è possibile recuperare un rapporto autentico con la vita, con il reale? In tanti di fronte alle alluvioni, come davanti alle stragi o alla corruzione dilagante, invocano una precisa assunzione di responsabilità con la subdola presunzione che chi ha fatto il male, chi ha corrotto o ha trascurato il territorio, sia fatto di una pasta diversa dalla nostra. Ma l’uomo è l’uomo e da lui non potrà mai venire la salvezza. Per questo, in ogni circostanza della vita sociale o privata il rimedio non siamo noi, il rimedio è un Altro che penetra nelle nostre giornate miserando atque eligendo, con uno sguardo pieno di amore e di passione per la nostra povera esistenza.
È questo che ci ha detto in questi quasi due anni Papa Francesco: non il potere ci salverà, non la conquista di uno spazio politico o la costituzione di un gruppo socialmente rilevante ci permetterà di parlare a quella studentessa, ma un evento, un fatto reale nella vita dell’uomo. È questo che disarma di Francesco: la consapevolezza semplice di ciò che guarisce il cuore della persona. Egli non propugna la costituzione di una lobby di pressione culturale o di una specie di “tribù” psicologicamente chiusa ad ogni fuoco esterno: egli ci richiama a non mettere la nostra vita al sicuro delle parole consolanti di una dottrina o di un’ideologia, ma ci invita all’incontro, al dialogo, al lasciarci smuovere da una Presenza che c’è e che opera dentro la realtà.
La Chiesa è nata occupandosi di amore e di dolore, nel gesto supremo della Croce, e oggi non può permettersi di tacere di fronte ad un mondo che ha fame e sete dell’unica cosa che fa davvero ricominciare l’esistenza: quello sguardo che a Natale entra nella nostra storia attraverso gli occhi di quel bambino e che oggi ci raggiunge nella carne di Francesco. Un uomo che, a settantotto anni, continua a sorridere come gli angeli, come il primo dei pastori venuto da lontano e che — nella notte di Betlemme — non può fare a meno di commuoversi davanti a quella grotta, davanti a quella notizia: la realtà c’è, la vita c’è.
Quel vagito che squarcia i secoli, e arriva fino a Bergoglio, avviene per dire a ciascuno di noi che la notte non ha vinto, che è tempo di smettere di piangere e di essere schiavi del sonno. Perché Qualcuno è sceso dal Cielo per venire a combattere per noi, per essere il nostro Guerriero, per liberare la nostra umanità dal fardello del peccato e dell’indolenza. Per questo oggi vale la pena festeggiare Francesco. Per questo, Santità, le facciamo i nostri più grandi auguri e la ringraziamo perché ancora una volta, attraverso di Lei, il Mistero non ci ha lasciati soli, ma ci ha riempiti della sua delicata e disarmante compagnia, una compagnia che ci spinge a crescere, che ci spinge a guardare le cose con gli occhi autentici della misericordia.