Dal 17 dicembre, all’avvicinarsi del Natale, la Chiesa canta all’Ufficio delle Letture un inno di sant’Ambrogio, composto con il metro classico del dimetro giambico, a conferma della permanenza della cultura classica del grande vescovo di Milano.

Veni, redémptor géntium,
osténde partum Vírginis;
mirétur omne sæculum:
talis decet partus Deum.



Non ex viríli sémine,
sed mýstico spirámine
Verbum Dei factum est caro
fructúsque ventris flóruit.

Alvus tuméscit Vírginis,
claustrum pudóris pérmanet,
vexílla virtútum micant,
versátur in templo Deus.

Procédat e thálamo suo,
pudóris aula régia,
géminæ gigas substántiæ
alácris ut currat viam.

Æquális ætérno Patri,
carnis tropæo cíngere,
infírma nostri córporis
virtúte firmans pérpeti.



Præsépe iam fulget tuum
luménque nox spirat novum,
quod nulla nox intérpolet
fidéque iugi lúceat.

Sit, Christe, rex piíssime,
tibi Patríque glória
cum Spíritu Paráclito,
in sempitérna sæcula. Amen.

(Vieni, o redentore delle genti, facci vedere il parto di una vergine; stupisca ogni tempo: un simile parto si addice a Dio! Non da seme di uomo, ma da un mistico soffio il Verbo di Dio si fa carne e fiorisce come frutto di un ventre. Il grembo della Vergine cresce, ma la barriera della pudicizia rimane, i vessilli delle virtù splendono, Dio giace in un tempio. Proceda dal suo talamo, palazzo   della pudicizia, come gigante dalla duplice sostanza che percorre veloce la via. Eguale all’eterno Padre, cingiti del trofeo della carne, rafforzando le debolezze del nostro corpo con la tua forza eterna. Già risplende la tua mangiatoia, e la notte emette una luce straordinaria, che nessuna notte rinnoverà e che brillerà di fede eterna. Sia, o Cristo, re piissimo, a te e al Padre gloria con lo Spirito Paraclito per i secoli eterni. Amen).



L’inno è per la maggior parte giocato sul miracolo del parto della Vergine, degno di ammirazione come cosa che si addice solo a Dio. La contrapposizione tra la nascita naturale e la venuta di Gesù è molto marcata: non da seme di uomo, ma dallo spirito di Dio fiorisce come frutto del ventre; il grembo cresce, ma la purezza rimane; il Signore esce dal talamo con la sua duplice natura, cinto di debole carne, a rafforzare la debolezza dell’uomo.

Vi è uno stupore per il mistero della verginità di Maria che resta una delle costanti del pensiero di Ambrogio, una gioia di luce che illumina l’ultima strofa in modo esplicito, ma che traspare da tutta la composizione. Notevole l’espressione centrale: “Dio giace in un tempio”. E’ il seno di Maria? Oppure la mangiatoia? Oppure la terra, tempio di Dio? O Maria stessa, arca della nuova alleanza? Forse tutto ciò insieme, in un rincorrersi di immagini sovrapposte, così caro alla poesia cristiana.

Con grande leggerezza il credente è messo davanti al mistero dell’Incarnazione, è invitato a considerare gli aspetti umani del concepimento e del parto e la loro origine divina, così come, per analogia, riavviene il miracolo della vita ogni volta che nasce un bambino.