I fatti che accadono spesso non sono capaci di cambiare davvero le nostre giornate per il semplice motivo che ciascuno di noi cerca negli avvenimenti ciò che sa già, le conferme alle proprie idee e alle proprie visioni del mondo, e non ciò che il suo cuore attende e brama al di là di ogni contingenza. Lungo questi mesi, nei confronti del Papa, si è venuta per questo motivo cristallizzando una retorica che è capace di scorgere in ogni suo gesto sempre una novità da applaudire o da biasimare. Si sono così strutturati partiti più o meno interessati che, dallo stare sul “carro del vincitore” o dal suo opporvisi, traggono lucro o sicurezza esistenziale, perdendo di vista l’unico dato che seriamente può guidare ogni riflessione sull’operato del Pontefice: la realtà.
Da questo punto di vista, a parte i legittimi record segnalati dalle statistiche, è giusto dire che i viaggi di Francesco al cuore dell’Europa politica e in Turchia non sono stati viaggi storici, sensazionali, prorompenti, ma si sono inseriti dentro un processo ben preciso che attraversa tutto questo pontificato e che si congiunge idealmente almeno fino al Concilio Vaticano II, se non oltre. Quando il furore delle tifoserie sarà tramontato ci renderemo forse conto che Bergoglio è grande perché avvia e persegue dei processi: egli non occupa meri spazi di potere o di visibilità, ma compie azioni e pronuncia parole che permettono al tempo di diventare più determinante rispetto alle posizioni di rendita raggiunte, favorendo la maturazione di percorsi storici che non mirino al tornaconto mediatico, bensì alla reale crescita della coscienza umana ed ecclesiale del popolo di Dio e dell’umanità intera.
Sul versante europeo il Pontefice ha portato alle estreme conseguenze i moniti di Giovanni Paolo II e le lucide analisi di Benedetto XVI dicendo che un’Unione Europea che dimentica la dignità trascendente della persona è destinata a ripiegarsi su se stessa, invecchiare ed essere percepita come corpo estraneo dal resto del mondo che — invece — non abbraccia la cultura nichilista degli occidentali, ma rielabora consapevolmente la propria “visione religiosa dell’uomo” che in diverse tradizioni è letta come un dato di natura e che sostiene che non si possa definire un essere umano solo in base ai suoi contorni fisici, morali o giuridici. L’uomo infatti è sempre di più — ognuno di noi è sempre di più — e alla radice dell’Europa o c’è questa consapevolezza sull’uomo oppure si smarriscono le fondamenta del bene comune, si riduce la ragione e tutto diventa — una volta inefficiente — semplice materiale di scarto.
In Turchia il Vescovo di Roma è invece andato oltre, portando a compimento un itinerario di maturità già sviluppato agli albori del cristianesimo, quando i Nazareni — pur sostenendo con forza la verità della loro strada — chiedevano ai poteri politici e religiosi dell’epoca di poterla semplicemente esprimere.
Poi invece arrivò Teodosio che, come un moderno papà, mise il cristianesimo al riparo dalle intemperie, difendendolo da tutti i profanatori e dichiarandolo religione di Stato. Pochi sanno che il provvedimento decisivo arrivò alla fine del IV secolo quando l’Imperatore impedì ai non cristiani di fare testamento, scatenando curiose (quanto interessate) conversioni di massa. Da allora le distanze con Costantinopoli si sono progressivamente allargate e la Chiesa ha chiesto alla politica di tutelare la verità della fede sacrificandone la libertà, mentre a Oriente — di contro — gli imperatori hanno usato le controversie teologiche in seno al cristianesimo per risolvere i propri problemi interni.
Furono secoli difficili che videro la fine dei Concili ecumenici del I millennio, l’ultimo dei quali a Nicea nel 787, e l’avanzata delle reciproche diffidenze che esplosero nel 1054 con lo scisma definitivo. Poi si susseguirono diversi tentativi di riunificazione che scandirono il medioevo fino al 1436 quando, ormai definiti i punti di contatto al Concilio di Firenze, l’Oriente iniziò a capitolare sotto la minaccia musulmana che divorò Bisanzio e il suo millenario impero nel giro di diciassette anni. Roma cadde in una profonda crisi interna e molte frange della Chiesa chiesero a gran voce riforme che mai arrivarono. Passò Lutero, Trento e il braccio secolare divenne sempre più incline a difendere la “vera fede” in cambio di un potere scandaloso sulla vita interna delle Chiese d’Occidente, sempre più nazionalizzate e in mano ai re e ai prìncipi dell’epoca.
Il rigurgito antisistema promosso dall’illuminismo travolse la Chiesa e la modernità, diventata aggressiva e invadente, fu condannata dal Sillabo, un documento nel quale si richiamavano gli Stati a ristabilire sulla terra la Regalità di Cristo mediante la Sua Chiesa, un documento all’epoca irricevibile per qualunque confessione cristiana. Gli eventi tuttavia precipitarono e, dopo la feroce campagna anticlericale che portò alla nascita dell’Italia e alla presa di Roma, la Chiesa si trovò tutta d’un tratto paradossalmente più libera e più desiderosa di rimarginare le antiche ferite che segnavano la Sua unità. Il conclave del 1903 fu l’ultimo a subire il veto di uno Stato: crebbe vertiginosamente il prestigio del Papa e si cominciò a parlare di tolleranza verso le altre confessioni religiose, permettendo alla Chiesa di Roma di diventare un vero e proprio attore politico e sociale sulla scena planetaria.
E poi ci fu il Vaticano II, i documenti Nostra Aetate e Unitatis Redintegratio, la fame di ricostruire la casa comune dei cristiani. Si sviluppò un numero incredibile di iniziative e caddero gli steccati: Paolo VI e Atenagora, Giovanni Paolo II e le audaci riflessioni sull’esercizio del primato petrino contenute nell’Ut unum sint del 1995, Benedetto XVI e il motu proprio Summorum Pontificum dove fece intendere che nell’unica Chiesa potessero coesistere una pluralità di riti destinata ad arricchire la comunione senza scalfirla.
Insomma: la libertà è tornata, negli ultimi decenni, ad essere la più grande aspirazione della Chiesa di Roma che continua a chiederla per sé e per tutti. Per questo le parole di Francesco a Istanbul non sono storiche o sensazionali, ma sono dentro ad una storia che sta sbocciando e che, di luce in luce, ci porta a dire che la Chiesa cattolica “non intende imporre (alla Chiesa ortodossa) alcuna esigenza se non quella della professione della fede comune” rendendosi disponibile a valutare le forme canoniche necessarie al pieno esercizio dei diversi ministeri in seno al cristianesimo.
Parole forti, inequivocabili. Eppure ricche di storia, di gesti eloquenti, di decisioni coraggiose. Il Papa non è una comparsa ingenua in mezzo ai soloni dei nostri tempi, il Papa si mostra — giorno dopo giorno — un uomo che vive dentro una fede, dentro ad una storia. Pronto a guardare al presente con quello stesso stupore e quella stessa consapevolezza che attraversarono gli occhi dell’Apostolo Andrea la sera che tornò a casa da sua moglie pieno di stupore e commosso per la sua povera vita. La sera che aveva incontrato il Messia e che lo avrebbe portato a custodire col cuore la millenaria Chiesa di Costantinopoli. Quella stessa Chiesa che sabato scorso ha avuto il coraggio di ricevere Pietro e di ricominciare a chiamarlo fratello.