Le luci di Natale inondano le nostre strade, un secolo dopo che un personaggio del Fu Mattia Pascal, parlando della «lampadina della fede», osservava che «se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato!». In effetti, nell’affollamento delle città, «chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di quei momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci?».
L’incessante lavoro della ragione è trovare una via, cercare di fare chiarezza sulle cose, di vedere il senso di quello che accade. Ma i propri «lanternini» non riescono a raccapezzarsi nel buio che ci stringe, e in cui si ingolfano certe giornate: le nostre parole intelligenti non illuminano la vita che affanna, come non ci aiutano i «lanternoni», ossia gli ideali che ormai ci appaiono «astratti». «A chi dobbiamo rivolgerci?»: servirebbe l’aiuto di non si sa chi, perché tanta è la confusione del mondo in cui ci troviamo a barcamenarci, tale è la fatica che ci spossa, così improvvisi sopraggiungono i tracolli che travolgono noi e gli altri uomini, così lontana esistenzialmente è la domanda di senso rispetto alla frequentemente sperimentata prossimità dell’insensatezza, che a questo punto appare ridicolo illudersi che davvero la nostra fioca ragione possa considerarsi un “lume”.
Non sono pochi gli scrittori che hanno scelto, per rappresentare l’uomo del nostro tempo, la metafora del “cieco”: «Donde venni non so; né dove io vada / saper m’è dato», ammette Il cieco di Giovanni Pascoli. Una guida dovrà pur esserci, e serve urgentemente, ma «Egli è fuggito; è vano che l’insegua / per l’ombra il suono delle mie parole!». Resiste tuttavia, inestirpabile, «la sempre aspettata alba d’un sole, / che di là brilla!». Il cieco di Pascoli esplode allora in una raffica di interrogativi brucianti: «Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede, / invisibile. Sé dentro sé cela. / Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede / in faccia a me. Chi che tu sia, rivela / chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace / o si compiange della mia querela!». La nostra cecità non esclude infatti che qualcun altro possa guardarci, e rivelarci se ride della nostra sperdutezza o se ne commuove: «Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi / me, parla dunque: dove sono?».
Disorientati nei confronti della vita, «mentre a noi tutt’intorno tu canti, sbraiti e ridi / atrocemente presa dal piacere» — è Baudelaire a immortalare il turbinio delle città — si fa strada talvolta, anche involontariamente, una strana inquietudine, che non ci lascia appagati né dello shopping prenatalizio né delle (ormai non troppo diffuse) calde atmosfere familiari di questi giorni. E come ciechi finiamo per alzare lo sguardo alla ricerca di qualcosa di diverso, che ci strappi dal soffocamento e ci mostri quale sia il senso, la verità, di questa esistenza: «cosa mai cercano, tutti quei ciechi, in Cielo?».
La domanda di Baudelaire apre una prospettiva tanto necessaria quanto dimenticata, per noi che rincorriamo sempre, nei ghirigori del cervello, tutti i pro e i contro, tutti i bilanci e le spiegazioni. Che insomma, pretendiamo di spiegarci le cose, di domandarci e di risponderci, di giocarci una partita tutta mentale, quando invece la realtà sconfina, è più grande della nostra testa. È uno dei passaggi della Divina Commedia da cui, ancora sette secoli dopo, non si può tornare indietro: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone». La nostra ragione non riesce a incamminarsi — non c’è niente da fare — nell’«infinita via» del mistero, né in quello della Trinità né in nessun altro. «State contenti, umana gente, al quia», continua Virgilio nel III canto del Purgatorio: che non è un invito a fermarsi, ad accontentarsi, tutt’altro! È il realismo di chi guarda quello che c’è (il quia), anche quando non sa spiegarselo; «ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria». Se l’uomo potesse vedere tutto, se l’uomo potesse trovare, pensandoci, la risposta alle domande che la realtà gli tira addosso, non ci sarebbe stato bisogno che Maria partorisse.
A cosa serve il Natale, allora? Dante tronca subito la questione: senza Gesù, non riesci a vedere la realtà. Se tu ci riuscissi già, Dio cosa si sarebbe incarnato a fare? Drammatica controprova: «e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’ altri». Ci sono stati uomini così intelligenti e così desiderosi, come Aristotele e Platone, che, se fossero sufficienti la propria intelligenza e il proprio desiderio a capire la realtà fino al suo significato, sicuramente ce l’avrebbero fatta. Invece noi abbiamo visto uomini simili che hanno desiderato fortemente ma «sanza frutto», che sono rimasti inquieti, e che per sempre scontano la pena del loro desiderio non corrisposto: un desiderio che si trasforma in «lutto». Già nel IV canto dell’Inferno Virgilio aveva descritto la triste nobiltà delle intelligenze più vive dicendo che «sanza speme vivemo in disio»: perché un desiderio che non incontra una risposta muore di disperazione, non spera più che qualcosa possa avverarlo.
Non ci basta la scaltrezza della nostra mente per vivere bene, sarebbe una follia anche solo sperarlo. Maria però ha partorito, per farci finalmente vedere. Natale è una questione di conoscenza delle cose, innanzitutto: della verità delle cose («li antichi la veritade non videro», insiste Dante nel Convivio), di cui questo evento riaccende il desiderio.
Due atteggiamenti aiutano ad accorgercene. Il primo è il turbamento, oltre che di Pascoli, di Pirandello e di Baudelaire, anzitutto di Virgilio, che dopo aver accennato a quel feroce desiderio dei più acuti tra gli uomini, «chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato»: triste e umile al tempo stesso, quel turbamento lo conosce bene chi sa di non avercela fatta, di non farcela, a spiegare la vita, chi non presume di elargire le sue perle di saggezza (e Virgilio è il «maestro» di Dante forse proprio per questo: perché non sa spiegargli la vita, però può offrirgli la sua impotenza).
Il secondo appare l’esatto contrario del chinar la fronte, e ne è invece il passo successivo: alzare lo sguardo, proprio come I ciechi di Baudelaire. Nel III del Purgatorio, mentre Virgilio, «tenendo ‘l viso basso / essaminava del cammin la mente», Dante invece «mirava suso intorno al sasso». Ed è lui che guarda a notare l’arrivo di chi li aiuterà a scalare la montagna: «”Leva”, diss’io, “maestro li occhi tuoi”». Se Virgilio si conferma un vero maestro perché sa farsi discepolo del suo discepolo, a Natale tocca a noi non aver paura del buio delle cose: quello non è un problema, la presunzione di ingabbiarlo nelle proprie idee sì. Con gli occhi che abbiamo, nell’oscurità che ci assedia, anziché cederle, possiamo andare a vedere «parturir Maria», e trovarci, come si vede in tante natività, nel fascio di luce che viene dal bambino: «luce che allumina noi ne le tenebre», dice il Convivio. Magari succede anche a noi, come racconta Agostino, che «egli fu guardato, e allora vide».