Abbandonati ormai da anni i toni macabri e bizzarri di taluni dei suoi primi racconti e romanzi, Ian McEwan continua a scandagliare, attraverso l’esplorazione di una serie di casi-limite, i temi della fragilità, del conflitto, del dilemma morale, specialmente quando ad attraversare questi stati d’animo sono personaggi maturi, assestati, con un ruolo ben definito e, diremmo anche, di prestigio sociale univocamente riconosciuto. Non più, come nel penultimo romanzo, Miele (Einaudi 2012) una protagonista giovane e avvenente, la bella e un poco pasticciona Serena Frome, neo-reclutata nei servizi segreti inglesi (ma figlia, non dimentichiamolo, di un vescovo della Chiesa d’Inghilterra); al centro de La ballata di Adam Henry (Einaudi, 2014) c’è, invece, una donna matura, la cinquantanovenne Fiona Maye, giudice specializzato in diritto di famiglia, che, in una piovosa estate inglese, deve affrontare due spinose questioni. La prima è di carattere squisitamente privato, e riguarda la crisi, apparentemente irreversibile, del suo matrimonio: il marito infatti, un accademico latinista, rimproverandole la sua freddezza, le confessa la propria intenzione di concedersi, prima dell’inevitabile declino e della vecchiaia, un’avventura con una ventottenne esperta di statistica.
L’altra questione è di ordine professionale e morale: Fiona viene chiamata a deliberare intorno al caso di un ragazzo, Adam Henry, diciassette anni e nove mesi, gravemente leucemico, che rischia di morire se, oltre alle cure che già riceve, non gli verrà praticata anche una trasfusione, pratica cui i genitori si oppongono in quanto Testimoni di Geova; anche Henry, del resto, è contrario alla trasfusione, autorizzando la quale lui e i genitori rischierebbero di venire isolati dalla loro comunità. Fiona non è nuova ad affrontare casi spinosi: divorzi combattuti, casi di affidamento complicatissimi, e, qualche anno prima, la terribile vicenda di due gemelli siamesi per i quali aveva autorizzato un intervento chirurgico separativo, che avrebbe salvato il più forte dei due, ma condannato a morte il più debole e sfortunato.
Eppure, forse per la sua concomitante, difficile situazione personale, nulla pare turbarla più del caso di Adam Henry, tanto che Fiona, una donna d’ordine, dedita alle regole, decide — procedura assolutamente irrituale — di andare a trovare il ragazzo in ospedale. Incontrerà un adolescente straordinariamente sveglio, sensibilissimo, amante della poesia e, come Fiona, della musica: e così il severo giudice si troverà a cantare con l’accompagnamento del violino di Adam. Riflettendo quindi sul concetto di “benessere del minore”, centrale in tutte le sentenze riguardanti casi simili, ma, soprattutto, commossa e turbata, perché “chi prende in mano un violino, o qualunque altro strumento musicale, compie un gesto di speranza che comporta il desiderio di un futuro” (p. 110), Fiona dispone che il ragazzo, nonostante il parere dei genitori, venga sottoposto a trasfusione.
Ritorna, in queste pagine, una sia pur minima traccia di quella sorta di compiacimento minuziosissimo, e un poco venato di macabro, con cui McEwan aveva spesso affrontato gli argomenti relativi al corpo e alla malattia. Ricordiamo qui un caso per tutti: la terribile operazione di neurochirurgia, illustrata con straordinaria perizia, con cui in Sabato viene salvata la vita, letteralmente aprendole la faccia, alla ragazza che il protagonista ha appena conosciuto, e che diventerà sua moglie, corsa in ospedale perché sta perdendo la vista a causa di un tumore benigno che le comprime l’ipofisi. Ma, nella Ballata di Adam Henry, McEwan, dichiaratamente ateo, esplora, in primo luogo, gli esiti estremi di un convincimento che può orientare, in un senso o nell’altro, la soluzione di un dilemma morale, e, in seconda battuta — un ambito che, ci sembra, gli preme ancora di più — si avventura a dimostrare come, molto spesso, e incredibilmente, tante cose terribili vengono compiute da persone che non sono affatto terribili.
Apologo sull’ambiguità degli esiti insita in tutte le azioni umane, La ballata di Adam Henry prende infatti nuovo slancio, e lascia avvinto il lettore, proprio a partire dalla soluzione della prima emergenza medica che travolge il ragazzo. Egli infatti, una volta salvato dalla trasfusione, si rende conto che anche i suoi genitori, ovviamente, sono sollevati dal fatto che il figlio non sia più in condizione di rischiare la vita, e ciò senza che essi abbiamo dovuto violare scientemente e consapevolmente i dettami della loro religione. Ma questo umanissimo sentimento viene interpretato da Adam, nell’irruenza e nel manicheo entusiasmo dei suoi diciassette anni, come ipocrisia. E nella ritrovata energia della sua convalescenza, si ribella alla famiglia, alla religione, a tutto quello in cui ha creduto e in cui è cresciuto, vedendo in Fiona la sua stella polare, scrivendole lettere enfatiche e tenerissime, e, alla fine, pedinandola, seguendola, supplicandola di consentirgli di vivere nella sua stessa casa, diventando per lui guida e mentore per la sua crescita.
L’ovvio, naturalissimo diniego di Fiona — che cos’altro avrebbe potuto fare un giudice, una donna sensata, concreta, equilibrata, intelligente, acuta (di lei, il presidente dell’Alta Corte di Giustizia aveva addirittura dato questa definizione: “Divino distacco, diabolica perspicacia, e una bellezza che non sfiorisce”, p. 16), ma anche sensibile e dall’animo gentile — comporta però una catastrofe, all’apparenza imprevista.
Come sempre, le pagine di McEwan, un autore dalla rara capacità di scandagliare i meandri dell’animo umano, qui (come anche in Espiazione, spesso ricordato come il suo capolavoro, ma ancora di più nell’assolutamente perturbante Cortesie per gli ospiti) ci ammoniscono a non dimenticare mai di quanta ambiguità potenziale si può caricare, negli esiti e nelle conseguenze, ogni nostro gesto, ogni nostro convincimento, ogni nostra azione.