Quello che sto per fare è un vero proprio coming out. Da fedele del culto testoriano, dico: non sono mai stato al Sacro Monte di Varallo. Testori non l’ho mai conosciuto da vivo, non ho fatto in tempo. Ma romanzi, racconti, pièce teatrali, articoli di giornale… Non mi sono fatto mancare nulla. E la critica d’arte, certo, anche quella. I feroci articoli sulle biennali di Venezia, l’amore per i pittori tedeschi degli anni Ottanta. Ma anche Cézanne, Pollock, Bacon. Che descrivesse le pedalate del Dante Pessina, facesse urlare di rabbia l’Ambleto o piangesse il piccolo Alfredo Rampi morto nella buca di Vermicino, la sua voce ha sempre acceso un’inquietudine un po’ barbara nel mio animo che una volta si sarebbe definito “piccolo borghese”. Un sentimento che crea dipendenza. E indirizza il gusto in modo irreparabile.
Ma lo ammetto: non ho mai fatto un pellegrinaggio in quella che è la Gerusalemme della sua personalissima religione figurativa (a cui ha sempre attinto la sua letteratura), Varallo e il suo Sacro Monte, appunto. Ma ora, e lo dico pubblicamente per evitare di fare marcia indietro, ci andrò. Giuro.
Ho maturato questa decisione irrevocabile l’altra sera, seduto nella chiesa di San Marco a Milano. A recitare le pagine del Gran teatro montano, capolavoro testoriano dedicato proprio al complesso sacro in Val Sesia, c’era Toni Servillo. Sì, Servillo, quello de La grande bellezza e degli altri film di Paolo Sorrentino. Ma soprattutto il grande attore e regista teatrale, quello che ha restituito Eduardo alla sua dimensione di classico, strappandolo a una superficiale napoletanità di maniera. Era la prima volta che Servillo si cimentava con la robusta lingua testoriana, una lingua amatissima dagli attori, che negli ultimi anni hanno fatto a gara per portare in scena uno qualunque dei drammi dello scrittore di Novate. Una lingua lombarda anche quando si immerge nella critica d’arte, ma che suona convincente a qualunque latitudine. Un evento importante (e va ringraziata Giuseppina Carutti, nipote di Testori, che fortissimamente lo ha voluto) che ha mostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, le qualità tecniche di Servillo (un’interpretazione asciutta, precisa, dalle pause perfette). Una maestria messa tutta al servizio della parola di Testori, a sua volta a servizio dei capolavori delle cappelle del Sacro Monte. Perché poi, in fondo, la notizia è questa: che un attore fresco di Oscar si cimenti con un autore che in vita è sempre stato un outsider, foss’anche perché a lui piaceva esserlo, vorrà pur dire qualcosa.
Ma qui torniamo a quel che si diceva, Varallo: «Amerei sperare che l’occasione di questo scritto faccia annotare sul taccuino di ciascuno una gita, da rimandare, forse ai tempi lucenti della primavera, ma in modo assoluto da non tralasciare», scriveva Testori il 24 dicembre 1975 sul Corriere della Sera: «Poiché una volta giunto al borgo, a quella che fu, cioè, l’antica “Varade”, ogni lettore si troverà davanti uno dei monumenti più inattesi, più grandi ed eccezionali che l’arte del Nord abbia edificato, in chiara, meditata e solenne risposta a quelli che erano i divini teoremi e le divine poetiche degli “uomini d’oro” del Rinascimento Italiano».
I grandi protagonisti di questa vicenda artistica, e di un amore viscerale — e come poteva essere se no? —, sono soprattutto Gaudenzio Ferrari (1475-1546) e Tanzio da Varallo (1582-1633). Per loro Testori spende tra le parole più alte che mai abbia usato. Parole che sarà difficile staccare da quelle opere, anzi: quelle opere non possono fare a meno di nutrire di esse la propria bellezza. Parlando delle statue di Gaudenzio per la cappella dell’Annunciazione, scrive, ad esempio: «Immagini il lettore di vedersi scorrer dinanzi i greci, Piero, Raffaello. Immagini ciò che di più celebrato, in fatto di canoni e di perfezioni, si sia realizzato; e vedrà come questo Angelo e questa Vergine tengano e come tengano proprio in quanto esprimono l’assoluto di un’altra verità: la verità appunto, del paese. Come se, all’immobile e all’eterno, potessero giungere solo l’Apollo o la dama di corte, e non anche questo giovane e questa ragazza, cresciuti all’aria fina e alla domestica luce (il Rosa è là dietro, coperto di ghiacci e di nevi)!».
Oppure, sentite qua, quando cerca di rendere l’idea di cosa siano le pareti della XXXIV cappella, quella con Pilato che si lava le mani: «Tanzio ha continuamente davanti a sé i colori della sua valle: ma non tanto la loro qualità ottica, quanto la loro sostanza materica. I bianchi dei ghiacci; gli azzurri e i rosa delle nevi; i neri dei precipizi (e quelli dei merli, quando scrollano d’improvviso i sottoboschi e volan via); le rocce; gli arbusti che vi crescono, abbarbicati, come per disperazione; i tronchi magri; le scorze; il pellame dei cervi; il cuoio delle bisacce; le ciotole; il pane; gli sterpi; i legni delle capanne e dei tavoli; lo strame; le paglie; le rotule dei ginocchi; le dita; i denti; gli occhi; gli occhi che fissano, scrutano, temono, invocano, protestano domandano. E poi, ancora e sempre, certi fiori di montagna: gli edelweiss, le aquilegie; i gigli, i cardi; i ciclamini».
È una vergogna amare queste parole senza aver mai visto, dal vero, ciò per cui sono state pensate. Ma è anche, e forse soprattutto, colpa di Testori. È lui che riesce a far amare ciò che non si è mai visto, ad accenderne un bisogno urgente, che impone di essere soddisfatto immediatamente. È già un godimento vedere in pagina certi particolari, certi volti, certe pennellate. Ma proprio per questo… Ecco, fate come me, armatevi del bel libro Testori a Varallo (Silvana Editoriale), fate il pieno di benzina e, meglio «ai tempo lucenti della primavera», fate una gita in Val Sesia. Chissà, magari ci vediamo lì.
PS. Per chi non abbia pazienza di aspettare primavera, ma si pone comunque il problema del freddo, si prepari alla gita al Sacro Monte andando a Napoli a vedere la bellissima mostra curata da Maria Cristina Terzaghi: Tanzio da Varallo incontra Caravaggio – Pittura a Napoli nel Primo Seicento (a Palazzo Zevallos, fino all’11 gennaio). Con un po’ di fortuna si può incontrare il napoletano Toni Servillo.