In a field/I am the absence/of field.
This is/always the case.
Wherever I am/I am what is missing.

 

In un campo/sono l’assenza/del campo.
È sempre così.
Dovunque sono/sono quel che manca.
da “Keeping things whole” (“Sleeping with One Eye Opened”)

 

In questi brevi versi è racchiusa la poetica di Mark Strand, narratore, poeta e traduttore scomparso il 29 novembre all’età di 80 anni.



Lo stile asciutto ed essenziale caratterizza la sua opera artistica dalla metà degli anni Sessanta fino a oggi e non manca di efficacia nel trasmettere al lettore un senso di spaesamento dell’io poetico, sempre in bilico tra due mondi senza appartenere a nessuno dei due. Nel suo universo un po’ cupo l’assenza del sé è un riempitivo del verso, dall’inizio alla fine della carriera, dalla prima collezione (Sleeping with One Eye Opened, 1964) in cui emerge l’ansia per un conflitto tra Stati Uniti e Urss, alle ultime, di cui fa parte il bellissimo Almost Invisible (2013), nel quale la rassegnazione per una fine imminente si fonde con l’asciutta consapevolezza di chi ha visto tutto, e alcuni versi hanno la potenza dell’epigramma.



In circa quindici anni di scrittura (1964-1980) Strand riesce nell’arduo compito di sottoporre il lettore a una pressione emotiva costante, che alcuni critici hanno visto come un limite. In questa azione di “disturbo” del lettore si esprime il presentimento che qualcosa di grave sta succedendo al sé, non tanto e non solo a quello di Strand ma al sé collettivo. Ma non tutto è perduto. Con Darker (1970) la poesia diventa salvifica soprattutto per il poeta e il suo sé si rivela quale paradigma esistenziale.

Nel 1980, dopo l’uscita di Selected Poems, Strand smette di dedicarsi alla poesia perché (dice) non gli piace più quello che scrive. Si volge dunque alla narrativa su un duplice binario. Quella dedicata ai bambini, che inizia con la pubblicazione di The Planet of Lost Things (1982), e quella incentrata sulla superficialità della vita, attraverso il racconto di episodi surreali, a tratti comici e animati da un’ironia sardonica (Mr. and Mrs. Baby). Nonostante la forma artistica sia diversa, nella narrativa Strand impiega la stessa lucidità analitica nell’osservare le stranezze umane. Il suo stile preciso e asciutto diventa uno strumento efficace per catturare il lettore e mostrargli quanto l’alienazione sia parte della quotidianità.



Nel 1990 Strand viene insignito del titolo di poet laureate e pubblica un nuovo libro di poesia dopo dieci anni di silenzio (The Continuous Life), una svolta nel punto di vista e nella metrica. Ma il grande successo arriva con la stampa di Blizzard of One (1999) che gli varrà il Premio Pulitzer per la poesia e lo consacrerà tra i più grandi poeti americani.

Canadese di nascita, sempre in viaggio per via del lavoro del padre (impiegato della Pepsi Cola), Strand inizialmente si dedica allo studio delle Belle Arti. Solo dopo il diploma si rende conto di preferire la poesia e parte alla volta di Firenze, con una borsa di studio, per conoscere e approfondire quella italiana dell’Ottocento. Il legame con la pittura lo mantiene scrivendo due monografie di cui una, Hopper, diventa un libro acuto sull’efficacia e sull’impatto degli elementi formali sull’osservatore.

Difficile pensare che l’autore con il dna di Kafka in versi (come qualcuno lo ha definito), concentrato a mettere l’accento sulla morte, l’assenza e la dissoluzione sia quello che con nonchalance affermava che c’erano stati dei vantaggi a essere poeta negli anni 60. Della turbolenza generale beneficiavano i poeti, assediati dalle groupies come rock star.