Uno dei canti più belli dell’Avvento è il Rorate, ancora in uso, anche se sempre più raramente, nelle nostre parrocchie.
La melodia è gregoriana, benché tarda. Essa sostiene il testo con un andamento semplice e solenne, che rivela la tristezza della condizione umana, fatta di argilla e di lacrime e la speranza dei cuori in una salvezza che venga dall’alto: “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto” aveva già cantato l’antico salmo di Israele.
Rorate cœli desúper,
et nubes plúant justum.
Ne irascáris Dómine, ne ultra memíneris iniquitátis:
ecce cívitas Sancti facta est desérta:
Sion desérta facta est: Jerúsalem desoláta est:
domus sanctificatiónis tuae et gloriae tuae,
ubi laudavérunt Te patres nostri.
Peccávimus et facti sumus quam immúndus nos,
et cecídimus quasi fólium univérsi:
et iniquitátes nostrae quasi ventus abstulérunt nos:
abscondísti fáciem tuam a nobis,
et allisísti nos in mánu iniquitátis nostrae.
Víde, Dómine, afflictiónem pópuli tui,
et mitte quem missúrus es:
emítte Agnum dominatórem terrae,
de pétra desérti ad montem fíliae Sion:
ut áuferat ipse jugum captivitátis nostrae.
Consolámini, consolámini, pópule meus:
cito véniet salus tua:
quare moeróre consúmeris, quia innovávit te dolor?
Salvábo te, noli timére,
ego énim sum Dóminus Deus túus Sánctus Israël, Redémptor túus.
Stillate rugiada, o cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto. Non adirarti, o Signore, non ricordarti più dell’iniquità: Ecco che la città del Santuario è divenuta deserta: Sion è divenuta deserta: Gerusalemme è desolata: la casa della tua santificazione e della tua gloria, dove i nostri padri Ti lodarono. Peccammo, e siamo divenuti come gli immondi, e siamo caduti tutti come foglie: e le nostre iniquità ci hanno dispersi come il vento: hai nascosto a noi la tua faccia, e ci hai schiacciati per mano delle nostre iniquità.
Guarda, o Signore, l’afflizione del tuo popolo, e manda Colui che sei per mandare: manda l’Agnello dominatore della terra, dalla pietra del deserto al monte della figlia di Sion: affinché Egli tolga il giogo della nostra schiavitù. Consolati, consolati, o popolo mio: presto verrà la tua salvezza: perché ti consumi nella mestizia, mentre il dolore ti ha rinnovato? Ti salverò, non temere, perché io sono il Signore Dio tuo, il Santo d’Israele, il tuo Redentore.
Tutto il canto deve molto a Isaia. Sembra quasi che l’autore abbia estratto dal libro del profeta i passi di un percorso che l’uomo compie nell’attesa del Signore. L’antifona è tratta dal capitolo 45: il sapore messianico del passo è messo in evidenza dalla traduzione latina di san Girolamo, anche se qui non appare la seconda parte del versetto, in cui si parla del germoglio, termine caro a Isaia per designare colui che verrà, uscito dal ceppo di Davide.
Poi è citato il capitolo 64, 4-6: “Abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balia della nostra iniquità”.
E poco sotto, ai versetti 8-10: “Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte”.
Come si vede, nel canto l’ordine dei versetti è invertito. Dapprima è descritta con parole drammatiche la miseria in cui versa il popolo di Israele e, sia detto tra parentesi, in questi tempi in cui terre vicine sono saccheggiate e i loro abitanti uccisi e perseguitati, è chiaro come la cosa valga anche ai nostri giorni. Poi vi è la riconosciuta ragione di questo massacro, il peccato commesso che nasconde il volto di Dio e lascia l’uomo in balia della sua fragilità: l’immagine delle foglie portate via dal vento è così universale da ricorrere anche in altri luoghi poetici: “Lungi dal proprio ramo / povera foglia frale / dove vai tu?”, così Leopardi, traducendo Arnault.
La terza strofa si apre con una preghiera accorata, affinché Dio guardi l’afflizione del suo popolo e intervenga. Ancora Isaia suggerisce le parole all’inizio del capitolo 16: “Invia, Signore, l’agnello sovrano della terra, dalla rupe del deserto al monte della figlia di Sion”. Manda l’essere forte e mite, che porti su di sé il giogo della nostra prigionia. Anche in questo caso san Girolamo attribuisce al passo un valore messianico. Il pensiero va all’ingresso di Gesù a Gerusalemme, seduto su un puledro d’asina, immagine di una regalità potente e umile.
A questo grido risponde il Signore, ancora una volta per bocca di Isaia, all’inizio del capitolo 40, con cui comincia il libro della consolazione di Israele: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. Ma anche prima, al capitolo 35: “Coraggio, non temete; ecco il vostro Dio, egli viene a salvarvi”.
Il Rorate conferisce all’attesa dell’Avvento tutta la solennità dei secoli dentro una grande semplicità di sguardo alla speranza degli uomini.