La storia del confine orientale  tra il 1943 e il 1947 presenta tratti talmente drammatici che risulta difficile pensare un termine di paragone con altre zone d’Italia. La Venezia Giulia infatti si trovò a sperimentare prima il nazifascismo della Repubblica sociale italiana e poi il comunismo nazionalista della Jugoslavia di Tito, con il Pci locale appiattito sulle posizioni titine e l’antifascismo non comunista inevitabilmente delegittimato. Prima il disastro della guerra mondiale e civile, e poi le aspre contrapposizioni della Guerra fredda.



In quell’area, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il vuoto di potere venne riempito dal movimento di liberazione jugoslavo, e non dagli Alleati o dalla Resistenza italiana come avvenne nel resto del Paese. Un movimento di liberazione connotato in senso fortemente nazionalista, tanto che in Istria non esitò ad usare la violenza contro chiunque venisse anche lontanamente sospettato di opporsi al progetto comunista. E perciò veniva etichettato come “fascista” o “nemico del popolo”, categorie che arrivavano a comprendere la borghesia più minuta, i piccoli proprietari terrieri, i preti, le suore, e finanche chi aveva un amico o un parente fascista. 



Un’altra ondata di violenza si verificò al termine della guerra, tra il 1945 e il 1947, anno in cui il Trattato di pace decretò il passaggio di Istria, Fiume e Zara all’amministrazione jugoslava. In questa seconda ondata, le violenze furono estese a Trieste e a tutta la Venezia Giulia, e furono ancora rivolte principalmente contro gli italiani. Al furore ideologico, naturalmente, non era estraneo il proposito di vendicare gli eccidi subiti dai fascisti negli anni precedenti, tuttavia gli storici più attenti come Raoul Pupo hanno descritto l’ideologia titina sul confine orientale come una «violenza di Stato, […] fondante, costituente, un elemento essenziale, anche se ovviamente non esclusivo, per l’affermazione della nuova statualità e del nuovo regime politico». Non una semplice reazione.



Si tende ad associare il Giorno del ricordo alla tragedia delle foibe, ma da alcuni anni la storiografia sta insistendo su altri due filoni ancora poco noti: l’esodo dei profughi e il dramma di chi è rimasto. 

Le foibe, innanzitutto. Nelle cavità carsiche, tecnicamente dette anche “inghiottitoi”, furono gettati migliaia di italiani. Tra i 5mila e i 10mila, secondo le stime più attendibili. Di solito, prima di finire nelle foibe, i presunti “nemici del popolo” erano oggetto di violenze fisiche da parte dei partigiani che poi procedevano con le uccisioni di massa tramite fucilazione. Era inoltre diffuso il macabro rituale di legare le vittime col fil di ferro per poi sparare solo a chi si trovava sull’orlo della foiba. Precipitando, inevitabilmente avrebbe portato con sé il resto del gruppo, destinato a morire di fame e di stenti in condizioni disumane. 

Se le cifre sugli “infoibati” non trovano ancora concorde la comunità scientifica, diverso è il caso dell’esodo, dove le stime sono più precise: circa 350mila giuliano-dalmati (il 90% della presenza italiana nella Venezia-Giulia) dovettero lasciare tutto in seguito all’aggressione delle forze nazionaliste e rivoluzionarie jugoslave. Zara, Fiume e Pola furono le città più coinvolte. Da lì, gli esuli partirono per un calvario che prevedeva un primo passaggio ai campi di smistamento di Venezia e Ancona, per poi approdare a uno degli oltre 130 centri di raccolta profughi, dove rimasero diversi anni. Si trattava di alberghi, scuole e altri edifici di pubblica utilità adattati in tutta fretta per accogliere migliaia di famiglie.

Infine c’era il dramma di chi decise di restare dopo il 1945: oltre 25mila istriani che si avviavano a diventare cittadini di seconda categoria, nell’inedita condizione di stranieri nella propria città, comunisti per gli esuli e per gli italiani, fascisti per gli jugoslavi. I “rimasti” andavano a inserirsi nel nuovo scenario geopolitico della Guerra fredda, divisi tra chi credeva fermamente nell’esperimento socialista di Tito, chi per opportunismo si adeguò alle circostanze, e chi difese strenuamente la propria identità e cultura italiana, nonostante il lungo silenzio delle autorità di governo e degli storici.

Foibe, esuli, “rimasti”: tutte storie che vale la pena ricordare, studiare e diffondere, su cui c’è ancora tanto lavoro da fare. Vicende talvolta crude come quella di Norma Cossetto, forse l’esempio più noto di “martire” delle foibe. Giovane studentessa universitaria e figlia di un piccolo proprietario terriero, era solita girare in bicicletta per Visinada, il paesino in cui viveva; suonava il piano, amava l’arte e sognava di fare l’insegnante. Era stimata da tutti e molto legata alla sua famiglia. Nel settembre ’43 i partigiani di Tito irruppero in casa Cossetto e portarono via Norma, intimandola a collaborare con il movimento di liberazione per avere salva la vita. Norma rifiutò, venne più volte violentata e subì sevizie di ogni tipo. Una testimone oculare ha raccontato che la sera prima di essere gettata nuda in una foiba, la ragazza invocò disperatamente la mamma, chiese dell’acqua, e implorò un po’ di pietà. Invano. Aveva solo ventitré anni.

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