“Commovente, da sindrome di Stendhal”: così uno dei primissimi visitatori a Bologna della mostra “La ragazza con l’orecchino di perla: Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt (Capolavori del Mauritshuis)” ha commentato la mostra stessa. L’osservazione di quel visitatore era intesa come positiva; eppure la cosiddetta sindrome di Stendhal (che aveva colpito a Firenze il grande romanziere) descrive com’è noto una reazione fisiopsichica negativa, un turbamento che può portare a stati di allucinazione in soggetti particolarmente sensibili esposti a una concentrazione di bellezze artistiche in spazi relativamente ristretti. Ma l’apprezzamento resta azzeccato nella misura in cui esso identifica quello stato di lieve febbrilità che si associa a un fenomeno di culto.
È innegabile infatti che il piccolo ritratto dipinto da Vermeer intorno al 1665 – una fanciulla volta di tre quarti il cui sguardo insegue dolcemente lo spettatore – sia diventato un oggetto di culto nel corso del suo pellegrinaggio internazionale. L’idea ormai diffusa, di approfittare di lavori di restauro per cedere in prestito opere d’arte che altrimenti sarebbero restate per lungo tempo invisibili, non ha forse mai ottenuto in tempi recenti un successo così impressionante per una singola opera. Anche a New York, la capitale artistica mondiale di solito abbastanza blasée che ha ospitato “La ragazza” nei mesi precedenti la trasferta europea a Bologna, la fila degli spettatori in attesa faceva il giro dell’isolato, intorno al più illustre fra i piccoli musei cittadini, la “Frick Collection”; e perfino il compassato New York Times ha dedicato a quel ritratto un articolo di prima pagina, in cui si descriveva fra l’altro quello che sopra si è definito senza esagerazione un pellegrinaggio, intervistando alcuni appassionati che avevano compiuto ripetuti viaggi internazionali per poter rivisitare quel quadro.
A proposito: non è inutile comparare i due diversi contesti – il newyorchese e il bolognese – in cui il quadro è stato esposto. La “Frick Collection” è solo una delle tappe di quello che a Manhattan si chiama “il miglio del musei”, dunque ogni singola mostra risulta inevitabilmente ridimensionata, in un mare di occasioni artistiche. Inoltre l’esposizione del ritratto, insieme con il gruppetto degli altri dipinti olandesi, nella palazzina protonovecentesca di Henry Frick era impeccabilmente accurata ma non dotata di particolare ispirazione. Tutt’altro è il caso dell’inquadramento bolognese della mostra all’interno di Palazzo Fava, un bellissimo edificio cinquecentesco. Qui la sinergia tra la locale “Fondazione Genus Bononiae” e l’associazione “Linea d’ombra” ha creato un’esposizione in cui la filologia si armonizza con l’eloquenza teatrale; e ciò emerge specialmente nelle visite serali e notturne.
Nelle sale del palazzo, “protette” dagli stupendi affreschi dei Carracci in alto sulle pareti, i quadri emergono dalle pareti scure, ciascuno sotto il fuoco di una luce particolareggiata, così che quando si arriva alla sala in cui il quadro più importante risalta in drammatico isolamento, lo spettatore è preparato ad apprezzare il contrasto tra i colori vivaci del ritratto e il suo sfondo color della notte.
Ho detto “il quadro più importante” − ma è poi esatto ciò? Chi ha decretato questa gerarchia? Sono domande legittime, così come non sono irrilevanti categorie socioculturali come: feticismo, kitsch, icona mitizzata ecc. Qui però ci troviamo di fronte a un mistero che richiede prima di tutto di essere rispettato come tale.
E che non è il mistero del quadro, ma il mistero degli spettatori. In effetti, questo è il meno misterioso dei non molti quadri dipinti da Johannes Vermeer (1632-1675) − a meno che uno non decida di creare un’atmosfera di segretezza affascinante ma alquanto artificiale, congetturando sull’identità e la storia della giovane modella del ritratto (come ha fatto Tracy Chevalier col suo romanzo cui si è accodato un film). Qui c’è quello che c’è: una giovane graziosa (non bellissima) adorna di un turbante esotico che sottolinea un certo aspetto “straniero” del suo volto − si avverte qualcosa come una mescolanza di sangui − dove il biancore degli occhi leggermente protuberanti (un medico positivisticamente indiscreto parlerebbe forse di ipertiroidismo) gioca elegantemente con il bianco della grossa perla assai probabilmente falsa, e dove le labbra semiaperte esprimono il topos del “ritratto parlante” ma parlano soprattutto di una consapevolezza della propria attrattiva e danno il senso di un invito.
Gli spettatori in sosta davanti al quadro tacciono (a New York come a Bologna), o sussurrano (a Bologna come a New York) parole di ammirazione. Dietro a quel silenzio sussurrato lo spettatore degli spettatori percepisce (a New York, a Bologna) un non-detto che sarebbe troppo rozzo tradurre con un “Tutto qui?”, ma che è comunque un discorso di frustrazione. Solo che la frustrazione non è un’insoddisfazione estetica, è il risultato di una sfida spirituale. Questo ritratto del tardo Seicento è l’espressione di un momento di felicità creativa che ferma un istante di desiderio. Ma proprio l’efficacia di questa raffigurazione evoca in ogni creatura umana il senso della elusività del desiderio − compensato in certo qual modo dal senso che il desiderio è infinito. È una “lezione” (termine peraltro troppo freddo e scolastico) che si può estrarre da ogni grande opera d’arte; ma qui è scattata per qualche ragione un’evidenza particolare − un imprevedibile e impertinente colpo dell’ala della grazia.