Il primo acerbo ricordo che ho di Eugenio Corti sono le farfalle in trincea. Era una sera di marzo della terza liceo, quando mi vennero affidate poche righe da recitare de Gli ultimi soldati del Re, ancora presente è il timore con il quale ne avevo affrontata la lettura. Parole apparentemente lineari, dentro le quali il fascino era nato senza accorgersene. Farfalle che, belle ed effimere, si posavano sui bordi della trincea, cercandosi e amandosi nella precaria grazia destinata a svanire da lì a un giorno, con la pretesa di essere specchio dell’esistenza di Dio, “inconsciamente liete del miracolo grande dell’estate di cui facevano parte“. 



Ricordo l’incanto per quella maniera titanica di vedere nell’insetto una tale fusione di ordini di grandezza, il “concretamento di qualcosa che la trascendeva infinitamente” presente in lei quanto in noi esseri umani, che si riconosce soltanto nei grandi autori. Dietro a quell’immediata attrattiva derivò l’esigenza di leggere Il Cavallo Rosso e poi di prendere parte alla resa teatrale di Processo e morte di Stalin, tragedia cortiana a lungo censurata. 



Ebbe un’influenza rilevante sulla mia adolescenza agitata leggere dell’integrità di quegli uomini, (limitato sarebbe definirli personaggi) nei quali non pareva essere stato eliminato nulla, la cui scala di sentimenti umani veniva suonata interamente negli aspetti dell’estrema miseria, della fame e dello spossamento della guerra. 

Mi affezionai a due grandi figure femminili alle quali va sicuramente il mio “primo pezzo” di cuore, per chi ricorda il canto alpino in onore del Capitano Grandi. Olga Goliscéva, moglie di Jascia, nuora di Stalin incapace nella sua semplicità di essere “amica e oppositrice” del regime e Colomba, ragazza dalla bellezza singolare innamorata di Manno, accumunate pur a distanza di centinaia di chilometri dalla nobiltà d’animo e da una modestia quasi guerriera. Complicate forse più delle figure maschili, ma con una capacità di visione delle cose molto più semplice: “La conosco bene, questa atroce compagnia, la solitudine, è da otto anni, giorno dopo giorno, la mia compagna inseparabile. Ma che posso fare io per vincere la vostra, padre Stalin?” La voce di Olga di fronte all’inaspettata debolezza di Stalin incarnava tutta la potenza dell’incontro a tu per tu avvenuto attraverso le pagine cortiane. Era la grazia di quelle donne russe e brianzole, la loro volontà umile di seguire un ideale antico e giusto, che le faceva protagoniste nel mondo, strette attorno alle sventure dei mariti, sperando e avendo chiara la grandezza della loro condizione: “Non lo capite, padre Stalin, che io sono nata proprio per questo: perché qualcuno abbia bisogno di me? È questo, io credo, essere donna“. 



Il mio “secondo pezzo” va allo stupore di Ambrogio e a quell’amore da lui presagito ancor prima di avere un volto preciso a cui indirizzarlo, nell’ora estiva trascorsa cercando di immaginare, figurandosela, la ragazza sconosciuta che sarebbe stata un giorno sua moglie. Senza preoccupazioni, ma con fiducia, sicuro che lei sarebbe arrivata, con la fermezza di ragazzi un po’ rozzi forse, ma gentili e onesti, che, con le parole di Pier Paolo Pasolini, “non aspettavano altro che il momento di amare una donna“. 

Il “terzo pezzo” è per la riscoperta Brianza. Dal Cavallo Rosso con la sua prospettiva internazionale si è risvegliato anche l’attaccamento per questo paese, fatto di piccole città che si affiancavano ai campi senza sovrastarli. Eugenio ha riaperto quel mondo che da bambina ascoltavo rapita dalla bocca dei miei nonni, fatto di piccoli gesti, di fiori rubati dai giardini dei vicini per essere donati all’amata, di corse a perdifiato nel cortile sotto lo sguardo vigile dei parenti. C’era poi il tempo della guerra che negli occhi dei nonni si vede ancora, un mondo lontano del quale non posso avere un ricordo ma di cui serbo, attraverso quelle storie, una memoria. È la sensazione dominante nella lettura del Cavallo Rosso, quella di sentirsi a casa, con il profumo del fuoco che arde nella stufa, con un cantastorie (tanto simile agli aedi omerici) che racconta di questa terra mutevole, dura, ma spesso anche generosa. E non si può non accorgersi come a renderci familiare la nostra terra, sia uno che l’abbia fissata, scrivendola, entro termini di tempo e spazio storicamente irripetibili (qualcuno potrebbe dire passati), sapendola rendere quasi più consistente di questa che noi non sappiamo chiamare patria. La mia generazione ha bisogno di rimpararlo, perché io per prima vorrei avere rispetto, innamorarmi di questo preciso momento storico e del popolo che lo abita.

A Michele sotto al Duomo lascio un “quarto pezzo”, per avermi insegnato che non vi è una netta differenza tra il lavoro dello scrittore e quello di uno scultore. Materia grezza che emerge modellata nelle pieghe e nelle sporgenze della pietra, resa nuova perché privata dell’eccesso, rispettata nelle sue incrinature. Un mestiere nobile, scelto da Eugenio come promessa alla Madonna, le cui colonne portanti non possono che essere la Verità e la Bellezza: “Ogni tanto alzava gli occhi ai fastigi del duomo, che gli apparivano da prospettive diverse: dovunque sulle guglie gotiche c’erano statue, fatte dello stesso marmo delle pareti, erano centinaia e centinaia. Pensò ai maestri scalpellini che le avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali, qui e altrove, avevano spesa la vita intera, soprattutto nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando sapevano che una volta issate al loro posto, nessuno avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio. Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno scalpellino? Sebbene scolpisse pagine anziché pietra“.

L’ultimo pezzo di cuore è tutto per quel “ci volevamo bene” alla base dei rapporti quotidiani che Eugenio racconta, inscindibile da una chiara coscienza cristiana: “Specchio, minimo come il luccichio di un granello di sabbia al sole, della gioia e del colore che stanno nella mente di Dio“. Nelle preghiere della madre di Stefano che sa del cuore perso del figlio, nelle parole di don Carlo Gnocchi al fronte, chiare immagini visive che inseguono e segnano le minime vibrazioni dell’animo umano, guardando anche al regime sovietico, così facilmente disumanizzabile, ridando la logica tutta coerente di uno Stalin che vorrebbe trascinare il paradiso in terra e togliere il male dal cuore umano. 

Una tentazione di distorsione che è moderna, che somiglia terribilmente al dramma del potere dei nostri tempi: “Abbiamo trasformato l’ambiente e ciò nonostante gli uomini ostinatamente si rifiutano di trasformarsi; ecco, sono loro, gli uomini, che non rispondono. Tutta quanta la restante materia docilmente si trasforma: invece la materia uomo resiste caparbia“. Perché la spada che ultimamente Stalin accusa di fermare puntualmente e ributtare indietro le fatiche dell’ideologia, davanti alla quale qualsiasi potere teorico deve inchinarsi, è quella che Olga, ed Eugenio Corti attraverso di lei, impugna e difende dandole luce perenne: “Che blaterate voi di rifare il mondo? Ma lo sapete voi cos’è il mondo? Ogni uomo è un mondo, rendetemi il mio. Randetemi Jascia, voi, suo padre, che lo avete assassinato. Rendetemi i suoi occhi dolorosi, la sua fronte. E la sua bocca ora, sì, ora che torna la primavera. Anche la sua tristezza io rivoglio… la disperazione che lo tormentava perché non poteva difendermi da voi. Rendetemi il suo passo malinconico sulla strada, la sera“. 

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