Tempi buoni, per Saffo. Pochi anni fa un papiro dell’Università di Colonia ci ha permesso di ricostruire quasi integralmente il “Carme della vecchiaia”, un vero capolavoro della poesia arcaica. Ora, da qualche settimana, circola in rete l’edizione provvisoria di un altro carme della poetessa di Lesbo, contenuto in un papiro di collezione privata e del tutto sconosciuto prima: Dirk Obbink, il papirologo di Oxford che se ne sta occupando (l’edizione definitiva comparirà presto in una rivista specializzata) ha proposto di chiamarlo “Carme dei fratelli”.
Preziosa primizia per gli antichisti, il nuovo testo è di grande interesse anche per i non specialisti. Anzitutto, il papiro ce lo restituisce quasi per intero: ne possiamo leggere, in pratica senza lacune, venti versi, che corrispondono al corpo centrale e alla chiusa; manca la “mossa” d’esordio, ossia – probabilmente – la prima strofa. E poi, questi nuovi venti versi di Saffo (una sontuosità inaudita! in passato i filologi hanno salutato con gioia “mozziconi” poetici ben più brevi e lacunosi, anche di autori meno illustri) ci permettono di entrare in profondo nel mondo della poetessa; un mondo che – lo capiamo sempre meglio, nella misura in cui la nostra documentazione si accresce – è fatto di tre dimensioni: sfera privata, città, impegno poetico.
Protagonisti del canto sono Carasso e Larico, i due fratelli di Saffo. Carasso secondo Erodoto fu protagonista di una vicenda singolare, vagamente romanzesca: a Naucrati d’Egitto, dov’era andato per commerciare vino, si innamorò della famosa etera Rodopi (o Dorica, come la chiama Saffo) e per lei spese folli somme di denaro, mettendo a rischio il buon nome e il patrimonio suoi e della famiglia. Quando finalmente si decise a tornare in patria, fu aspramente rimproverato dalla sorella. Di Larico, probabilmente il più giovane dei tre, sappiamo che fu da ragazzo coppiere nel pritaneo di Mitilene: una carica conferita di regola ad adolescenti di belle fattezze fisiche, rampolli delle famiglie più in vista.
Il nuovo carme si inserisce a pieno titolo nel “romanzo” di Carasso, aggiungendosi agli altri frammenti in cui la poetessa pure accenna alla lontananza del fratello. Questo non significa, naturalmente, che la vicenda – nei termini in cui la racconta Erodoto – corrisponda a una precisa realtà biografica. Gli studiosi, anzi, sono inclini a pensare che sui personaggi reali Saffo innesti dei “ruoli” poetici, per dare al suo canto un valore didattico più ampio ed efficace. Ossia, nei “canti di Carasso” la poetessa intende richiamare il suo uditorio (verisimilmente il gruppo familiare, più o meno allargato) ai valori tipici della società aristocratica: senso della misura, attaccamento alla patria, attenzione al buon nome, fede negli dèi.
Quest’ultimo punto, in particolare, emerge con chiarezza. Nella Grecia arcaica il poeta riveste anche un ruolo sacerdotale, per la sua capacità di invocare e celebrare le divinità nelle forme dettate dalla tradizione. Proprio questa familiarità con il divino – oltre al talento poetico donatole dalle Muse – autorizza Saffo a cantare per la propria comunità (che è, di volta in volta, il tiaso delle allieve, la famiglia, la città): nel sentimento arcaico, infatti, ogni momento del quotidiano è soggetto all’azione di un dio, e la performance poetica dà voce a tale sentimento. Nel nuovo brano (come in tutti i “canti di Carasso”) il ruolo degli dèi è decisivo: loro, e Zeus sopra tutti, possono dare salvezza nei mali, e a loro quindi va affidata la sorte del giovane. Ma gli dèi devono essere supplicati: è qualcosa che essi si aspettano; ecco perché tocca a Saffo levare una preghiera solenne alla regina degli dèi, Era. È la stessa Era a cui la poetessa si rivolge nel carme 17, per chiederle di proteggere il ritorno in patria di una ragazza del tiaso: è la grande dea che i Lesbi venerano, insieme a Zeus e a Dioniso, nel santuario più visitato dell’isola.
Se il ritorno di Carasso (importante anche per il benessere economico della famiglia) è associato all’intervento di Era, la situazione degli altri familiari è soggetta all’insondabile arbitrio di Zeus (è lui che “distribuisce la fortuna ai mortali”, come ricorda Nausicaa a Odisseo). Ma in casa c’è un altro figlio maschio: l’ultima strofa è un evidente invito a Larico ad assumersi le responsabilità adulte che la prolungata assenza di Carasso gli assegna. Implicito biasimo (a chi è colpevolmente lontano), esplicita parenesi (a chi è presente e può dare): il “Carme dei fratelli” è uno splendido esempio di poesia pragmatica, volta a interpretare la realtà alla luce delle categorie di giudizio condivise dalla comunità, e a renderne quindi più sopportabili le asprezze.
Ecco, ora, una possibile traduzione italiana del nuovo brano.
…Carasso arriverà con la nave piena:
ecco quel che sai dire. Ma queste cose, credo,
le sanno Zeus e tutti gli dèi. Tu non dovresti
pensare a questo,
ma mandare me da Era regina, e chiedermi
di invocarla con suppliche,
perché Carasso possa tornare qui
con la nave intatta
e trovare noi in buona salute. Tutto
il resto affidiamolo agli dèi:
i venti impetuosi, infatti, si placano
presto nella bonaccia;
quelli a cui il re dell’Olimpo, divenuto
propizio, decide di girare il destino
via dagli affanni, questi sono felici
e fortunati.
E noi, se Larico solleverà
la testa e diventerà uomo,
sì, da tutte queste angosce
potremo liberarci.
Rispetto al testo diffuso da Dirk Obbink, accetto la correzione aérrē (proposta da Franco Ferrari) al posto di aérgē al v. 17, e correggo epárōgon in epárōgos al v. 14. Chi sia l’interlocutore a cui “Saffo” si rivolge col “tu” all’inizio del frammento, è impossibile stabilire (ma lo si sarà detto nella prima strofa, non pervenuta); d’altra parte è normale per il poeta arcaico intonare il proprio canto con un’apostrofe in seconda persona: l’opposizione tra questo “tu” incipitario e l’ “io” del canto riassume i due poli della comunicazione poetica, cioè il poeta e il suo uditorio.