In memoria di don Luigi Giussani (15 ottobre 1922, 22 febbraio 2005) pubblichiamo un estratto dal volume di Alberto Savorana, “Vita di don Giussani”, Rizzoli, Milano 2013. Il brano è tratto dal capitolo 4 (“Una cosa dell’altro mondo, in questo mondo. Lo Studium Christi e l’ordinazione sacerdotale”).
Nel clima umano di Venegono nasce una comunità denominata Studium Christi. Il gruppo è formato da alcuni studenti liceali, primi fra tutti De Ponti, Manfredini e Giussani.
L’antefatto dello Studium Christi è una domanda buttata lì da uno dei tre amici in prima liceo. «C’era un mio compagno che è morto nove mesi prima di dire messa, quando la mamma e il papà, che erano latifondisti del Basso milanese, avevano già seminato il grano, il filare di grano per fare le ostie della sua prima messa e avevano già messo un cordone alla vigna da cui volevano estrarre il vino per la sua prima messa». Si chiama Guido De Ponti. Una sera d’inverno, Giussani sta passeggiando nei corridoi del seminario, De Ponti gli si avvicina e gli domanda: «Ma, scusami, ma se Gesù Cristo è la verità, cosa c’entra con la matematica?».
Molti anni dopo Giussani dirà: «Tutto quello che adesso cerco di dire agli altri e cerco di vivere, mi è venuto fuori da lì. È questa in fondo la chiave di volta, se il cristianesimo deve investire tutto e deve rendere più vibrante, più gustoso, più vero tutto – tutto! –, anche la matematica. Da quella volta, mi è venuto un gusto dello studiare, perché dicevo che quella perfezione, che quella armonia, che quella esattezza era un riverbero lontanissimo e microscopico di quella realtà che formava anche me, del mistero di Dio, del mistero di Gesù Cristo. Lui ricapitola in sé tutto, non c’è una nota di musica, non c’è un accordo d’armonia, non c’è un brano di Deledda, non c’è una scintilla di attrattiva che non sia in Lui, che non parta da Lui».
A tale proposito, commemorando l’amico Manfredini nel decimo anniversario della morte, nel 1993 Giussani spiegherà: «Quella sera il fatto cristiano era come sbocciato per noi. Quale serietà tali pensieri determinavano nella vita quotidiana, a scuola, nel tempo libero, nei dialoghi tra noi! Crearono una amicizia diuturna che ci accompagnò sempre. […] Quella domanda ha trasfigurato, nel senso letterale della parola, tutta l’intensità di pensiero e di sentimento che mi legava alle cose che facevo, ai compagni, alla regola, ai contenuti dello studio. […] Il contenuto dei dialoghi fra noi tre era tutto quanto dettato dal fervore che quella domanda aveva fatto nascere».
All’epoca i tre amici non hanno ancora sedici anni. Pochi giorni prima hanno ascoltato il fondatore dello Studium Christi di Assisi, come ricorda don Camillo Giori. È don Giovanni Rossi, che fa parte della Fondazione Cardinal Ferrari insieme a don Giovanni Battista Penco.
Don Penco e don Rossi sono stati segretari del cardinal Ferrari e hanno creato l’istituzione che ne porta il nome; poi don Rossi, lasciata Milano alla volta di Assisi, fonda la Pro Civitate Christiana: «Era un innamorato della persona di Cristo, dell’incontro di Cristo, e ci fece questo profilo di questo Studium Christi; Giussani ha preso immediatamente questa idea ed è diventato il promotore in mezzo a noi seminaristi di questo Studium Christi».
Don Carlo Costamagna, tra i primi a far parte di quel gruppetto insieme a Giussani, Manfredini, Giori e altri, conferma l’episodio citato: «Era venuto [a Venegono] don Giovanni Rossi e sulla sua scia ci costituimmo».
I particolari di quell’inizio rivivono come fotogrammi di un film nel racconto di Giussani. Parlando in terza persona, dirà: «Innanzitutto un ponte, della linea Como-Milano, vicino al paese che si chiama Meda, ai margini della Brianza. Una classe di seminaristi che sta andando a passeggio un giovedì. Sono tre che sono sempre insieme: uno si chiama De Ponti, un altro si chiama Manfredini, un altro si chiama Giussani… erano sempre insieme. […] Appena passato il ponte della ferrovia, questo ragazzo che era a sinistra – si chiamava De Ponti – […] dice: “Vi ricordate di uno dei seguaci di don Giovanni?”. […] Venne questo don Rossi a parlare a noi seminaristi dello “Studium Christi”. Fu la prima cosa che mosse le acque; nessuno poteva immaginare in che senso le movesse. Ma, in quel momento lì, De Ponti disse: “Ma… io chiamerei la nostra amicizia ‘Studium Christi’!”». Giussani commenterà il fatto con stupore: «Ditemi voi, se è immaginabile un caso più caso, più caso di questo».
Sulla base del materiale documentario conservato nell’archivio di Venegono, don Dell’Orto conferma il ruolo decisivo di De Ponti basandosi su un giudizio di condotta, redatto dal rettore Giovanni Colombo al termine della terza liceo (1939-1940): «Sogna grandi cose, vaste e nuove forme d’apostolato; in camerata fonda un circolo “Christus” per lo studio e l’imitazione della persona del Redentore».
Una tale intensità di vita farà dire a Giussani cinquant’anni dopo: «Se io dovessi rientrare in seminario […], non solo lo accetterei ancora, ma lo accetterei con gioia, non cambierei nulla di quanto ho fatto. […] E posso dire, ingenuamente, ma davanti al Signore, che fra quello che immaginavamo del nostro futuro e la realtà del futuro così come è avvenuto non riesco a vedere differenza». Per esempio, fra di loro si dicono: «Occorre che la Chiesa riviva, occorre che la realtà cristiana sia più consapevole (eravamo in terza ginnasio, ma la domanda poté nascere perché eravamo già a una certa profondità di amicizia); occorre che la Chiesa, per rivivere, crei delle comunità; tante comunità, che, legate l’una all’altra, trasformino la vita sociale, la forma della vita sociale, diano un nuovo assetto alla vita comune, rendano più umano il cammino dell’uomo su questa terra».
Molti anni dopo, in occasione dei funerali di Giussani, sarà il cardinale Joseph Ratzinger a ricordare nell’omelia la nascita dello Studium Christi: «Il loro programma era parlare di nient’altro se non di Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta. Solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita; sempre don Giussani ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento».
Monsignor Citterio fornisce alcuni particolari sulla nascita del gruppo: al liceo «sentii di questo Studium Christi, che avevano fondato Giussani, Manfredini e il primo dei morti della classe, un certo De Ponti». «Questo Studium Christi nacque per diverse esigenze, non dette dai fondatori, ma chiarissime. Prima di tutto alla loro vivacità non bastava il ritmo, sia pur molto pesante, degli studi liceali, non bastava neppure l’imparare dalla scuola di religione in seminario, che era fatta bene. Sentivano il bisogno, per così dire anticipavano l’esigenza di essere anche attivi, esigenza data dagli stessi alunni e poi interpretata dagli educatori. Poi la terza esigenza, che a me sembrò veramente bellissima, perché veramente provvidenziale e molto profonda, era una diversa impostazione della vita di pietà, l’esigenza di passare dalla fedeltà alla pratica di pietà all’incontro con la persona di Cristo. Può sembrare che sia la stessa identica cosa, invece c’è un abisso, perché le pratiche di pietà possono essere e devono essere il veicolo, la strada, la via per arrivare a Cristo, per arrivare a Dio, ma possono essere anche una parete, una parete che arresta».
Manfredini e amici siglano questa sorta di patto: «Tutto per Cristo».
[…]
I dialoghi tra i compagni dello Studium Christi si fissano nella mente di ciascuno in maniera indelebile, tanto che Giussani li rievoca in più occasioni: «Mi ricordo una volta sulla scala [del seminario; nda], mentre stavamo scendendo in chiesa in silenzio, perciò trasgredendo la regola, Manfredini mi disse: “Però, a pensare che Dio è diventato un uomo come noi…”. Sospese la frase, che mi rimase impressa, tant’è che ve la ridico: “Che Dio sia diventato uomo è una cosa dell’altro mondo!”. E io aggiunsi: “È una cosa dell’altro mondo che vive in questo mondo!”, per cui questo mondo diventa diverso, più sopportabile. Diventa più bello. Infatti alla passione per Cristo, in Manfredini, quella che immediatamente per così dire conseguì, quasi bruciando il terreno su cui dapprima fioriva, fu la passione per gli uomini, la passione per il destino degli uomini, la passione per il senso della vita che gli uomini non sanno, cui gli uomini non pensano. “Chissà – diceva, non dico piangendo, ma quasi – che cosa sarà di questi giovani che passano dagli oratori, chissà che cosa sarà della gente che va in chiesa, se non afferrano che ciò che riveriscono, ciò che pregano, ciò che pensano, rappresenta il significato di ciò che vivono, della giornata a cui ogni giorno aprono gli occhi! Se non pensano a questo, che vita conducono? Quando l’obiezione insorge o quando l’alternativa alla sete di felicità e di piacere si afferma, come potranno vivere? Come possono vivere?”».
E ricordando l’episodio di Manfredini che gli disse quelle parole afferrandolo per un braccio, molti anni dopo Giussani osserverà: «Il cuore di quel mio compagno era pieno della emozione dell’annuncio più grande che sia mai riecheggiato in questo mondo». Infatti, continua Giussani, «attraversando orecchi attenti e orecchi disattenti, cuori aderenti e cuori irritati “contro”, attraversando secoli di storia, questo messaggio è, obiettivamente, in sé, se lo ripetiamo e lo guardiamo, il messaggio più buono, più umano, più carico di promessa e di speranza […] che l’uomo possa sentire». E domanda: «Possiamo immaginarci un’altra frase che esprima un messaggio più buono di questo, più carico di speranza di questo?». La sua risposta è: «No! Manfredini, il mio compagno, lo sentiva nel cuore, io me lo sono sentito nella mano che mi fermava il braccio, così, d’improvviso, sulla scala».